IMPRESA 2.0 Quali prospettive di sviluppo per le Pmi nell’economia digitale?

A cura di Federico Fioravanti

Intervento di Sabina Addamiano

docente e consulente di comunicazione-marketing

Sabina Addamiano, è docente di Marketing all’Università di Roma Tre, ha insegnato Marketing per molti anni all’Università degli Studi di Perugia, è consulente professionale di comunicazione e marketing per le imprese e pubbliche amministrazioni, e anche organizzazioni no profit. Nel suo lavoro si concentra sul ruolo delle tecnologie informatiche e della comunicazione come funzione abilitante alle relazioni di mercato, ed è per questo che le abbiamo chiesto di introdurre questo nostro forum. Molte piccole e medie imprese dell'Umbria sembra vivano ancora in preda ad dubbio amletico: " Essere o non essere sulla Rete?"


Direi che la domanda “esserci o non esserci?” è già superata da ciò che la realtà ci mostra, e quindi la riformulerei così: “Come essere sulla rete?”, anche a fronte dei numerosi dati presentati in apertura, che hanno inquadrato sia la situazione nazionale che quella umbra ponendole a confronto con il contesto europeo. Certo i raffronti non sono particolarmente incoraggianti; ma proprio per questo abbiamo tanto da lavorare, ed è questa l’indicazione forte e chiara che viene fuori dai numeri.
Riflettendo su questo tema e sulle prospettive diverse dei partecipanti a questo forum, sono tornata a ragionare su qualche fonte di storia delle tecnologie. In particolare, vorrei riferirmi a un libro molto bello, pubblicato nel 1994 in una collana di Telecom Italia. Il libro è di Carolyn Marvin, storica delle tecnologie statunitense, e si intitola Quando le vecchie tecnologie erano nuove; tratta della diffusione della rete elettrica negli Stati Uniti, e delle modificazioni sociali e produttive che la rete elettrica ha portato con sé.
Perché il titolo di questo libro mi è tornato alla memoria in occasione del nostro Forum? Perché noi continuiamo a parlare di “nuove tecnologie”, ma ormai le tecnologie di cui stiamo parlando adesso, compreso il Web 2.0, non sono più nuove: fanno parte di una tecno sfera che ci è familiare. Il divario tra la realtà e l’espressione “nuove tecnologie” che ancora utilizziamo, però, non è casuale: ci da la misura di quanto soprattutto noi immigrati digitali, che abbiamo cominciato con la macchina per scrivere e siamo arrivati alla partecipazione ai social network, percepiamo ancora l’impatto di novità dei nuovi spazi di comunicazione e relazione.
Nell’introduzione al libro che citavo, un altro storico delle tecnologie, Peppino Ortoleva, commenta la complessità sociale che la diffusione della rete elettrica ha portato con sé, e il modo in cui tale complessità veniva fatta oggetto di comunicazione all’interno della società. Dalle sue parole emerge un altro aspetto che credo sia molto interessante per la nostra riflessione: l’apparire di una nuova figura professionale, il tecnico della Rete, incaricato di mediare la complessità della tecnica per l’utente finale. Alzi la mano chi di noi non ha mai avuto bisogno di uno ‘smanettone’, di uno specialista di server, di una persona che gli sbloccasse la posta elettronica; e perché? Perché la complessità di queste reti, sia dal punto di vista hardware sia dal punto di vista dei linguaggi è sempre più alta, ci interpella profondamente circa le nostre abilità e va spesso al di là della nostra capacità di gestirla con competenza.
Nella prefazione al libro di cui parlo compare anche questa considerazione, fatta en passant: la dinamica di accoglimento delle tecnologie sui sviluppa su tre livelli. “Accoglimento” è una parola molto forte, che significa fare spazio al proprio interno, ospitare con un atteggiamento di disponibilità, e non semplicemente ricevere. E le tecnologie si accolgono, prosegue il testo, a tre livelli: un livello sociale, ovverosia quel livello in cui una società decide di dotarsi di una tecnologia (come ad esempio la banda larga e la sua diffusione anche in zone disagiate o cosiddette periferiche); un livello culturale, quello in cui una società discute delle modalità di adozione di una tecnologia, e mette in atto strategie per la formazione dei cittadini e la condivisione sociale delle nuove risorse; e infine una dimensione – quella che chiamerei con i tecnici della telefonia “l’ultimo miglio”, ovverosia il tratto di cavo che rende effettivamente possibile la connettività − che è l’accoglimento psichico della tecnologia: il fatto che ciascuno di noi smetta di fare resistenza all’apprendimento della nuova tecnologia che modifica il nostro scenario.
Parlo di questo aspetto, che può sembrare molto strettamente soggettivo, perché in realtà è cruciale ed ha una ricaduta fortemente politica. Le politiche della formazione, le politiche che gli organismi di rappresentanza camerale e di rappresentanza associativa possono porre in essere dovrebbero, a mio parere, concentrarsi sullo smantellare proprio quest’ultimo miglio di resistenza, che fa dire: “Ma io Internet non lo capisco, ma io non sono capace, ma io non so come si scarica un file” anziché: “Sono intimorito, penso che imparare a usare questa tecnologia sia una fatica, penso che non serva alla mia azienda”. È da qui, credo, che sorgono poi le resistenze organizzative; soprattutto da parte della piccola impresa e del suo imprenditore, il quale, non avendo molte occasioni strutturate per cogliere le evoluzioni del Web 2.0, inasprisce in un certo senso questa forma di resistenza, e non si rende quindi disponibile a un cambiamento che dovrebbe poi diventare anche cambiamento organizzativo. Stiamo dunque parlando non solo di soggetti-persone fisiche; stiamo parlando anche di organizzazioni complesse, stiamo parlando di società, e stiamo parlando alla fine di approccio al digital divide.
Quello del digital divide è un tema oggi molto discusso in molte sedi; moltissime sono le iniziative per colmarlo, e non da oggi. Della sua esistenza e dei rischi potenzialmente connessi a quest’ultima si era già accorta nel 1996 la Commissione Europea, che aveva dato un allerta sul digital divide e sulle sue implicazioni per l’inclusione sociale. Nel 1996 veniva infatti pubblicato il Rapporto Building the European Information Society For Us All, riguardante la costruzione della Società dell’Informazione europea come società inclusiva.  Nel Rapporto a un certo punto si affermava: “L’ICT fornisce il potenziale per grandi aumenti della produttività e per lo sviluppo di molti prodotti e servizi innovativi e di qualità migliore. Tuttavia, la storia ci mostra che la capacità di convertire questo potenziale in vantaggi reali in termini di produttività e miglioramento del tenore e della qualità della vita dipende da un lungo processo di apprendimento e cambiamento istituzionale”.
Ecco, mi sembra che siano questi i due piloni su cui far poggiare una presenza più incisiva ed efficace dell’impresa nel Web 2.0: la disponibilità all’apprendimento e la possibilità di avere opportunità di apprendimento per abbattere la resistenza, anche soggettiva, all’adozione delle tecnologie. Entrambe possono avere un impatto su quella che con un tecnicismo potremmo chiamare reingegnerizzazione dei processi di business; perché alla fine è di questo che stiamo parlando, il ripensamento del presidio del valore di impresa alla luce della presenza delle nuove (ma ormai vecchie) tecnologie.
Alcuni esempi al volo: la possibilità di fare web analytics, cioè di monitorare il comportamento degli utenti nei nostri spazi Web. Che cosa ci dicono i dati dei desideri, dei bisogni, dei bisogni latenti non soddisfatti, delle aspettative di nuovi prodotti, che potremmo sviluppare a partire dall’analisi del comportamento degli utenti? E ancora, l’ottimizzazione della presenza sui motori di ricerca, per presidiare ancora meglio la nostra presenza in Rete in termini di visibilità e reputazione. Da ultimo, ma non per importanza, un tema che nella raffica di dati con la quale abbiamo aperto questo Forum non è emerso, ma credo perché ancora non molto percepito a livello di consapevolezza: lo spostamento, che per alcuni settori di mercato è forte e chiaro, della transazione − e quindi dell’acquisto in senso tecnico – sui dispositivi di connettività mobile. Sempre più spesso anche noi italiani facciamo acquisti da smartphone e da tablet; questo può sembrare normale, ma la cosa che fa pensare è che gli acquisti da dispositivi mobili vengono effettuati anche per beni che un tempo si sarebbero chiamati “beni problematici”, come i vestiti: siti come Zalando fanno fatturati enormi da dispositivi mobili perché le persone si fidano, perché il sito ha costruito un meccanismo reputazionale e di fiducia per il quale se la taglia è sbagliata, se il colore non ci soddisfa, se la fibra non è esattamente quella che volevamo, possiamo restituire il capo acquistato a costo zero. Credo che questo meccanismo reputazionale e fiduciario sia una chiave del rapporto di mercato che meriterebbe una riflessione molto approfondita e specifica relativamente alle PMI.
Quindi la domanda, alla fine, mi sembra questa: che concetto abbiamo del nostro valore d’impresa, e qual è il nostro modo di scambiare questo valore nelle reti del valore 2.0? Non voglio togliere spazio agli altri relatori, ma già da tempo nella letteratura di marketing, da quando si parlava di sistemi aziendali del valore, si dice: ogni singola attività di impresa è potenzialmente un elemento che crea valore o disperde valore; disperde valore se l’imprenditore non è in grado di cogliere tutto il valore intrinseco a quell’operazione e non ne massimizza l’efficienza; crea valore, invece, se la potenzialità di questa attività di essere una leva competitiva viene rafforzata e collegata con tutte le altre fonti del valore. Questo approccio oggi è proiettato immediatamente nel concetto di reti del valore 2.0: reti che permettono agli imprenditori di rafforzare tutte le leve competitive che hanno a disposizione attraverso relazioni di Rete, che permettono di acquisire e condividere tutta una serie di vantaggi. Ma cosa possono fare le reti del valore 2.0 per l’impresa 2.0? Possono costruire reti di relazione più efficienti e veloci per tutti gli elementi di produzione del valore: la logistica in entrata, la produzione, la logistica in uscita, il marketing, l’assistenza postvendita, la ricerca e sviluppo, la ricerca del personale, eccetera eccetera. E tutto questo valore può essere reso ancora più efficiente se condiviso in quelle che in termini di Web 2.0 chiameremmo community, e che in termini più antichi chiameremmo distretti produttivi.
Cos’altro ci permette il Web 2.0? Un benchmarking, ovverosia un’analisi della capacità competitiva rispetto alla concorrenza, impietoso, in tempo reale e su tutti gli aspetti del nostro business, sull’economia dei nostri processi, sulla qualità dei nostri prodotti, sull’efficacia della nostra comunicazione. Ci costringe a interpellarci fortemente su che cosa intendiamo per qualità, e su come misuriamo gli standard della qualità che produciamo. E ci permette anche – e questa è un’ottima notizia per le piccole e medie imprese – l’apertura a nuovi clienti e mercati abbattendo la necessità di intermediari locali; il che permette di contenere i costi, o di innalzare la qualità della produzione, investendo su quest’ultima anziché sugli intermediari di mercato.
Cos’altro permettono queste reti del valore? Una comunicazione più incisiva, rapida e mirata, perché permettono di conoscere meglio l’utente, il cliente e il cliente potenziale, e di intrattenere relazioni continuative e diversificate; permettono di accedere a piattaforme collaborative, nelle quali l’innovazione può essere fortemente stimolata e, anzi, favorita in aggregazione di filiera; permettono di individuare anche soggetti che fanno project financing in rete, e sono fortemente orientati a finanziare l’innovazione; permettono la costruzione di visibilità e reputazione; e permettono, ultimo ma non meno importante, lo sviluppo delle opportunità di business legate alla connettività mobile. Voi mi direte: bellissimo, ma le piccole e medie imprese come fanno? Faccio soltanto un piccolo esempio che vuole essere un po’ provocatorio.
Qualche settimana fa, assistevo a Civitanova Marche a una manifestazione di un’associazione di categoria delle piccole e medie imprese, la quale premiava le piccole e piccolissime imprese (imprese con non più di dieci dipendenti) fortemente innovative. Ebbene, tra i tanti premiati c’era l’azienda di un imprenditore che in marchigiano si direbbe uno scarpà: uno di quelli che nel distretto della calzatura hanno iniziato come masticiai, incollando le suole alle tomaie, e che poi aveva creato la sua piccola azienda e aveva avuto un’intuizione straordinaria: aveva installato nei tacchi delle scarpe che produce un sistema di GPS. Voi direte: a che serve un sistema di GPS nei tacchi delle scarpe? A chi può servire?
Ebbene, immediatamente si aprono – e si moltiplicano grazie al Web 2.0 − diverse possibilità di mercato: il mercato dei malati di Alzheimer, perché quando escono di casa da soli e si perdono le famiglie possono ritrovarli grazie al sistema di georeferenziazione. Voi sapete che tanti vengono ritrovati anche mesi o anni dopo, purtroppo, in luoghi imprevedibili; e questa tecnologia può essere una risorsa preziosa. Può servire anche ai direttori di cantiere e agli operai che lavorano in spazi molto ampi, come per esempio le cave, e a tanti altri soggetti. Naturalmente questa applicazione tecnologica pone, e questa è l’altra faccia della questione, problemi di privacy, di riservatezza e di controllo, e anche questo va tenuto in considerazione, perché non sono tutte rose e fiori; il tema del controllo e della tracciabilità è un tema forte nell’acquisizione e nell’integrazione nel nostro quotidiano di queste tecnologie.
Ho fatto questo esempio per dire che non è necessario avere enormi dimensioni per essere orientati all’innovazione. Anzi, oserei dire, la buona, buonissima notizia è che la “periferia dell’impero” non c’è più; indipendentemente dalla dimensione d’impresa e dalla sua localizzazione geografica, si può essere al centro di un mercato globale, se si ha un approccio – lo ripeto ancora una volta, perché questo è come un mantra di cui sono profondamente convinta – di disponibilità ad apprendere e a ripensare creativamente l’organizzazione del processo di business in funzione della centralità delle relazioni sul Web.

 


 

Fuggire dal dilettantismo ed affidarsi a dei professionisti. Le imprese vanno indirizzate. Torna il leit motiv che ci ha guidato dall'inizio del nostro dibattito: la strada del Web va percorsa con decisione ma con giudizio.


Alla fine di questo nostro Forum mi sembra di poter evidenziare tre aspetti e di poter fare una piccola proposta finale.
Il primo dei tre aspetti che mi sembrano i più degni di nota: il rapporto tra innovazione, reingegnerizzazione del business e passaggio generazionale. Nelle imprese umbre, che sono spesso imprese a conduzione familiare, questa dimensione mi sembra fondamentale. È una dimensione che chiede, credo, una riflessione ad hoc. Non a caso ci sono atenei che fanno seminari intensivi su quello che – per dirla in termini freudiani – chiamerei l’elaborazione del lutto, cioè sul fatto che l’imprenditore padre fondatore “molli l’osso” alla generazione successiva. È un problema ancora una volta molto profondo e molto forte, edipico, potremmo dire; ma credo che il tema del passaggio generazionale che è anche passaggio all’innovazione tecnologica introdotta dai nativi digitali sia un tema forte su cui riflettere.
Il secondo aspetto su cui riflettere: abbiamo parlato tanto di e-commerce e dei problemi connessi all’attivazione di un’infrastruttura tecnologica di e-commerce. Qui vorrei fare una piccola provocazione: la Commissione Europea definisce e-commerce, in estrema sintesi, qualunque transazione che generi valore. Non è rilevante che ci sia uno scambio monetario, l’importante è che si scambi valore. E allora, ogni volta che facciamo una ricerca su Google facciamo commercio elettronico perché scambiamo valore, dando informazioni sui nostri comportamenti in rete; ogni volta che apriamo una pagina di un sito aziendale piuttosto che su un’altra facciamo commercio elettronico, perché forniamo all’azienda informazioni sui contenuti che l’utente considera di maggior interesse. Se pensiamo alle fasi di presidio del Web da parte dell’impresa, gli aggregatori, come giustamente diceva Ciulli, sono un momento dell’evoluzione della presenza dell’impresa sul Web; credo che ragionare sul tema del rapporto tra tipologie di transazione e modalità di generazione di valore sia centrale.
E infine, il terzo aspetto è un fatto che mi sembra meraviglioso; ne è un caso di specie Francesco Zuccaccia, laureato in Storia scelto come facilitatore per le imprese umbre dell’adozione del Web nell’ambito del progetto sui distretti digitali. Poco fa il dottor Mencaroni rilevava la necessità di conoscenze ampie e solide, di capacità di lettura del territorio e dei modi in cui il territorio esprime forme e tipologie del valore non riproducibili in altri luoghi. Ciò significa che i nostri laureati in discipline umanistiche possono, se integrano le competenze tecnologiche a quelle storiche, letterarie, geografiche, sociologiche eccetera, trovare uno spazio occupazionale nella transizione al Web 2.0 delle imprese, e anche delle piccole e medie imprese. Nel campo della formazione universitaria e accademica ci sono già esempi in questo senso, come il corso di laurea in Informatica umanistica dell’Università di Pisa. Non ci insegno e non l’ho seguito, quindi non prendetela come un promo! Questo Corso è centrato sulla modellizzazione della conoscenza in base a una visione di Rete, ed è stato pensato per coloro che vogliono sviluppare la capacità di mediare contenuti in Rete e costruire, sulla Rete, nuovi modelli di conoscenza e nuove forme di valore.
Allora voglio chiudere questo nostro incontro con una proposta alla Camera di Commercio di Perugia:  quella di organizzare un prossimo Forum sul content design, sulla creazione e gestione dei contenuti in Rete per massimizzare il valore delle imprese umbre.