Green Economy: per uno sviluppo sostenibile dell'Umbria

A cura di Federico Fioravanti

Intervento di Mauro Basili

esperto di green economy

Bisogna chiarire bene di cosa stiamo parlando quando ci occupiamo di green economy. Per capirne di più, parto da un ritaglio stampa che ho portato con me. La notizia è del 16 febbraio scorso. Leggo: “E’ la multa ambientale record di tutti i tempi: 9 miliardi di dollari. Colpisce il colosso petrolifero Chevron per la distruzione inflitta alle foreste vergini dell’Ecuador e per i danni provocati alla salute della popolazione. Da una parte, una delle potenze del petrolio sostenuta finora da tutti i governi americani. Dall’altra, le tribù di indios e contadini poveri. A emettere il giudizio è stato il tribunale di un piccolo Stato che fino a pochi anni fa era un docile vassallo di Washington e oggi sfida la superpotenza mondiale”.
Questa sentenza è la formalizzazione di un fatto: le famose esternalizzazioni, cioè quelle cose che entravano nei processi produttivi ma non venivano valutate nei loro costi, adesso sono entrate in modo prepotente, anche nei bilanci industriali. Addirittura a colpi di atti giudiziari con 9 miliardi di dollari di multa. L'esempio è forse un po' provocatorio, ma fa capire cos'è la green economy. In termini molto rozzi, pratici, significa produrre di più con meno. Poi, su questo punto possiamo attaccare tutti i valori ecologici ed ambientali che vogliamo. Ma in fin dei conti, per chi fa impresa, la green economy deve essere un processo economicamente vantaggioso. La logica è quella di cercare di produrre più, e probabilmente meglio, ma con meno costi.
A memoria, vado al bilancio della Philips: nel 2010  il 38% era destinato alla green economy. Ci si potrebbe domandare: ma come fanno quelli della Philips a capire che quel 38% del loro bilancio è green? Hanno uno schema banale, molto pragmatico, che in qualche modo ci fa capire come un’industria legge l'economia: per loro un prodotto green è un prodotto che rispetto al loro prodotto precedente o rispetto al prodotto dei concorrenti ha il 10% in meno di qualcosa. Per esempio, il 10% in meno del peso, il 10% in meno di emissioni, il 10% in meno di energia che serve a produrlo. Quindi si tratta di argomenti e situazioni economicamente importanti. Allora ecco che la green economy diventa un processo pervasivo, orizzontale.
Facciamo un esempio in casa nostra. Le imprese cantieristiche toscane stanno facendo dell’innovazione tecnologica perché producono dei fuoribordo con dei materiali che pesano di meno. E solo per il fatto che pesino di meno, per poterli muovere si possono utilizzare motori con una potenza minore.
Molti di voi sapranno che gli aerei più moderni, quelli dei low-cost, pesano il 40% in meno degli aerei di una generazione precedente, di 25 anni fa. Ovviamente, pesando di meno, consumano di meno. E quindi, in qualche modo, danno un beneficio a tutto il sistema ambientale perché emettono meno scarichi nell'aria.
Quando ero dirigente Enea, c’era una cosa che colpiva il pubblico quando parlavo di inquinamento ed era il fatto che un’automobile emette un etto, un etto e mezzo di CO2 a chilometro. Dico volgarmente “un etto e mezzo di CO2” perché così si rende un po’ l’idea del fatto che è tanto. Quand’è che ci si accorge che è tanto? Quando ci manca la benzina. Non so se è capitato a qualcuno di voi di dover riempire la classica tanica per poi versarla nel serbatoio della macchina rimasta a secco. Chi ha vissuto questa disavventura avrà capito, di colpo, quanto pesa la benzina. Perché una tanica con 15-20 litri di benzina dentro, pesa l’ira di dio, e quel peso poi, quando la macchina brucia il carburante, va fuori, sparisce, non rimane dentro l'automobile. Se io metto 20 litri di benzina nella macchina e ci faccio la mia strada, poi quella benzina non ce l’ho più. La gente è abituata a pensare che le emissioni dell’automobile, siccome sono gas, non pesino niente. Invece, per capire quanto pesino, basta trasportare una volta 20 chili di benzina. Scusatemi se uso concetti e situazioni così banali, ma è per entrare un po’ meglio nel contesto del problema.
 Allora la prima cosa che bisogna dire a chi fa impresa è che la green economy conviene, è conveniente.
Allora, non solo dobbiamo essere contenti come cittadini per il fatto che un’impresa si orienta verso l'economia verde, ma dobbiamo essere contenti anche come sistema Paese, perché se ci orientiamo verso il green, diamo maggiore competitività ai nostri prodotti.

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Ma l’Umbria può essere un laboratorio di Green economy?

Vorrei riprendere due aspetti toccati nella discussione. Cominciamo da quanto ha detto prima il presidente Mencaroni. Chi ha seguito da vicino le audizioni al Senato e alla Camera in merito a questi incentivi, si sarà reso conto della criticità del problema, perché a seconda di chi avevano di fronte i parlamentari, si levavano grida di aiuto e si diceva: se non ci date i finanziamenti, succede il finimondo. AssoSolare ha sempre detto: la riduzione del 30% dei certificati verdi e il limite alla produzione del fotovoltaico manderà a casa 25.000 persone. Qualcun altro parla addirittura di 50.000 persone.
Allora qual è il problema? Ovviamente siamo in un momento in cui, se non stiamo attenti su questo concetto degli incentivi, finiremo per fare della macelleria sociale.
Vi do un dato: nel 2009 sono nate 1.700 ass.com in tutta Italia. Stiamo parlando di micro e mini imprese. Metà di queste ass.com sono nate nel Meridione, l’altra metà nel resto d’Italia.
Allora su un dato bisogna essere tutti d’accordo: il sistema degli incentivi fino adesso stabilito è un sistema antieconomico. Ortis si è tolto qualche sassolino dalla scarpa e ha parlato, prima di andare via, di 5 miliardi, 6 miliardi. Ma se noi paghiamo 5 miliardi l’anno, la Germania ne paga 11. Però è pur vero che siamo il secondo Paese che finanzia incentivi a questo livello in Europa.
Quindi il sistema degli incentivi va in qualche modo rivisto e va alzata l’asticella del contenuto tecnologico degli interventi che verranno fatti. Questo che cosa vuol dire? Che bisogna stare attenti a che altezza bisogna porre l’asticella, perché dobbiamo sicuramente alzarla, se non altro per togliere alcuni effetti spuri di speculazione che ci sono stati, ma dobbiamo dall’altra parte stare attenti a non creare una selezione darwiniana severissima nei confronti delle micro e mini imprese. Quindi occorre gestire le cose con grande saggezza.
Io non so se questo succede. Qualche malizioso può dire che un certo intervento che è stato fatto sul TG1 sugli effetti perniciosi dell’eolico nel Molise, il richiamo al limite degli 8.000 MW solari (ricordo che la Germania ha posto come limite 55.000 MW, mentre noi stiamo parlando di 8.000 MW come se avessimo conquistato il mondo), il problema che è stato posto del costo degli incentivi sul solare, e tutto questo nel mentre si riparte sul nucleare, può far pensare che evidentemente quella voce “A3” che c’è sulla bolletta deve servire a qualche altra cosa. Io non voglio fare il malizioso, la butto lì, poi valutate voi.
E’ pur vero, sempre per dare dei numeri, che il bilancio pubblico 2010 porta -27,3 miliardi di sbilancio export-import, ma se togliessimo la bolletta energetica ci sarebbe un +21. Quindi vuol dire che i cittadini nel 2010, hanno pagato una bolletta di 50 miliardi di euro. Dico questo senza pensare al costo del petrolio al barile che avremo adesso, con la crisi libica.
Allora la questione energetica è una questione fondamentale non solo per gli aspetti energetici, ma per l'economia del Paese.
Bisogna stare attenti, bisogna graduare bene gli incentivi e gli interventi, perché ci stiamo giocando ogni possibilità di sviluppo ulteriore.
Veniamo ad alcuni aspetti legati all’occupazione e green economy. Non ho qui dati. Ma vi posso dire che in alcune regioni in cui Dintec ha lavorato per stabilire il potenziale di green economy, sulla base di alcuni dati del censimento Excelsior, si vede che il numero di occupati in campo green nel 2008 cresceva. Poi c’è stato il crollo totale verticale del 2009, che ha investito evidentemente tutti i settori, ma sulla green economy c’è stato un rimbalzo più veloce.
Ritorno a quelle 1.700 imprese. C’è stato un +110% in una situazione generale italiana di calo drammatico, quindi c’è stata un’inversione di tendenza rispetto a tutto questo. Io mi ricordo quando partecipavano ad alcuni convegni dove si parlava sempre della retorica del “cavallo che non beve”, ma in questo caso “il cavallo si è ubriacato”, quindi la reattività del sistema industriale Paese c’è se ci sono delle logiche giuste.
Quindi oggi l’energia è sicuramente una driving force, ma – e qui parlo al rappresentante regionale di Innovazione – è una driving force in tutti i sensi, non solo per la questione energia. Non so se sapete – parleremo forse del problema della bioarchitettura, della bioedilizia – che adesso c’è il “mattone amico”, c’è il “cemento amico”, c’è la “finestra amica”, ci sono le piastrelle che combattono i batteri e per cui si possono mettere nelle scuole e negli ospedali, ci sono le piastrelle fotovoltaiche, ci sono i cementi autopulenti. Una serie di cose innovative che non si chiamiamo “energia”, bensì “nano materiali”. Ma che hanno un’implicazione forte sull’energia.
Sicuramente il rappresentante della Regione sa quanti sforzi sono stati fatti in Italia per rilanciare le information technology. Tra la chimica e l’information technology sono stati sprecati non so quanti soldi.
A calci abbiamo tentato di far alzare questo cavallo che dormiva. Ma questo cavallo dormiente non ha bevuto nulla. L’information technology oggi può decollare se si parte su un progetto di distribuzione di energia. Le smart grid sono l’internet dell’energia, ma l’internet dell’energia non si fa se non c’è un’information technology dietro.
Allora faccio una parentesi sullo smart grid, e così torniamo al discorso degli incentivi.
Abbiamo detto che bisogna alzare l’asticella della tecnologia. Questa asticella va posta non soltanto relativamente alle questioni delle rinnovabili, ma anche su un paradigma molto ma molto più importante. Parlo di quei quei famosi 50 miliardi di bolletta energetica pagati nel  2010. Parlo dell'efficienza energetica. Dobbiamo cominciare a pensare non alle rinnovabili, perché questo Paese, detto tra noi, non si può permettere di avere un carico di rinnovabili eccessivo perché ha una rete di distribuzione che è vecchia quanto mio nonno. Non ce la fa la nostra rete di distribuzione a immettere carichi variabili. Quindi, attenzione: abbiamo dei vincoli di sistema e allora, da qualche parte, questi incentivi devono andare anche per quanto riguarda la distribuzione.

Ma come dobbiamo lavorare per assicurare questa efficienza energetica?

Oggi dobbiamo fare questione sull’energia e sulle rinnovabili pensando a dei soggetti che producono energia e la consumano in loco. Pensare cose del tipo di quelle pensate ancora da alcune Camere di Commercio. Gli esempi si sprecano: metto un fotovoltaico sul terreno agricolo così do una mancetta in più al contadino che non ce la fa. Queste politica  produce effetti che hanno vita corta, che hanno dei rinculi, che poi, sul piano sociale ed economico, assumono contorni disastrosi.
Allora la smart grid che cosa è? E’ il modo per cercare di produrre localmente e consumare localmente, perché in un sistema di territorio attrezzato ci sono dei momenti in cui il grosso opificio o il grosso ospedale può produrre energia e la consuma per sé, ma ci sono dei momenti in cui ne ha in eccedenza e la può dare ad altri. La smart grid, quindi, è un concetto che permette di realizzare queste condizioni di esercizio che sono assolutamente fondamentali.

Parlavamo di marchi. “L'Italia ha un cuore verde: l'Umbria” sembra uno slogan ancora più attuale in un momento in cui la politica regionale è orientata verso lo sviluppo dell'economia verde.

Per spirito di contraddizione, vorrei tirare fuori il marchio dei marchi. E mi spiego. Quando si fa un ragionamento di green economy, bisogna essere convinti e convincenti.
E' un problema di responsabilità condivisa: da una parte c’è chi produce in un certo modo, ma dall’altra ci deve essere qualcuno che acquista convinto di acquistare un valore. Si tratta di un sistema, se vogliamo sociale, che viene messo in campo e che scommette sul concetto della qualità della vita e della green economy così come l’abbiamo definita fino adesso. Quindi se c’è una politica che la Regione vuole fare sulla green economy, deve essere in qualche modo vera, convincente. Cioè deve essere in qualche modo raccontata, raccomandata e spinta; ci deve essere un sistema che in qualche modo parte tutto insieme intorno alla questione della green economy. Ecco perché parlavo del marchio dei marchi.
Per fare un esempio, dico la prima stupidaggine che mi viene in mente. Ho radici umbre e mi permetto di parlare liberamente, come se fossi a casa mia.  Quando prendo la E 45 e mi fermo a fare benzina, trovo degli autogrill che francamente fanno pena. Quello è il peggior biglietto da visita dell’Umbria. Se uno va alla toilette, pensa: ma che ci sto a fare qui!? I cornetti sono freddi, il bar va come va etc..
Forse molti di voi saranno andati in Spagna e avranno visto che nel paesaggio spagnolo, in cima alle colline, ogni tanto si vede uno di quei tori neri che ci sono in Spagna. Allora immaginiamo di creare un logo: “Umbria Green economy” che diventi come il toro nero in Spagna, cioè un logo che riproduca qualcosa che si vede da tutte le parti. E ovviamente, se dobbiamo fare un logo che riproduca qualcosa che si vede da tutte le parti, mettiamo i pannelli fotovoltaici. Ed evidentemente, se facciamo un logo con i pannelli fotovoltaici, riproduciamolo, perché i marchi si possono vendere, si possono dare in gestione, quindi creiamo una società che gestisca questo marchio, ma lo gestisca anche con delle soluzioni energetiche importanti. E mettiamo in questi benedetti autogrill, che fanno pena, per esempio, questo tipo di comunicazione alla “tori spagnoli” e facciamo in modo che produca energia per gli stessi autogrill. Facciamo dei patti di consumo con i gestori degli autogrill per elevarne il contenuto di qualità in modo che promuovano e vendano prodotti tipici umbri. Ma  allo stesso tempo siano l’immagine di una politica condivisa, voluta da tutti, per cercare di realizzare green economy in Umbria.
Un elemento che secondo me è un motore fondamentale per la green economy in Umbria e che può diventare un motore eccezionale per il sistema Paese, è il territorio regionale. Molti, pensando al problema degli incentivi, soprattutto nell’edilizia, insistono sul concetto delle nuove abitazioni. Ma le nuove abitazioni sono solo l’1% del problema, il resto, il 99% che rimane, è il problema di come dare efficienza alle abitazioni che già ci sono.
I centri storici umbri, i paesi umbri, sono così importanti e richiedono un contributo di creatività e di eccellenza nel recupero energetico di questi edifici. Lo sviluppo di questa politica ci porterà ad esibire una leadership anche tecnologica e culturale su questi temi.

L'occupazione è un altro tema chiave dell'economia verde.

Anche su questo vorrei essere estremamente chiaro: in una situazione di crescita zero o quasi crescita zero, i posti di green economy si creano perché si spostano. Non sono nuova occupazione. Estremizzo: se, come dicono, da qui a vent’anni la produzione di autoveicoli sarà del tutto elettrica, che fine faranno i nostri benzinai? Con l’introduzione di queste innovazioni tecnologiche e lo sviluppo dell’auto elettrica, si perderanno posti di lavoro e i benzinai non ci saranno più. Ma un po’ di posti di lavoro li abbiamo già persi se pensate che io, quando ero ragazzo, avevo la Seicento e mi mettevo lì a guardare il carburatore, aggiustavo la carburazione da solo, con il cacciavite. Un tempo dicevamo che i meccanici aggiustavano le macchine col martello. Oggi, invece, i meccanici fanno paura. Se ora apro il cofano della mia macchina, non ci capisco più niente. La tecnologia che c’è dietro è talmente elevata che il povero meccanico di una volta, con le mani sporche, si è dovuto migliorare, ha dovuto in qualche modo educarsi, capire. In una parola, aggiornarsi.
La green economy, quindi, non crea posti di lavoro, ma, vivaddio, crea qualità di lavoro, perché, per esempio, invece di avere lo spazzacamino che pulisce i camini, abbiamo dei soggetti preparati.
E allora, caro rappresentante della Regione, c’è un problema di formazione. La Comunità Europea ha destinato 8 miliardi di euro, nei prossimi cinque anni, alla formazione.
Insisto: oggi, con la crescita zero, la green economy deve spostare posti di lavoro e il sistema locale deve essere molto reattivo, veloce.
Mi viene in mente che durante la crisi dell’informatica degli anni ‘90, in California mandarono a casa tutti gli indiani che lavoravano lì. Era un sistema chiamato “Business-to-Business” e poi coniarono il concetto di “Back to Bangalore” perché tutti gli ingegneri e i softweristi che lavoravano lì furono rimandati a casa. Gli americani non si resero conto che quegli ingegneri che rientravano in India sarebbero diventati, a Bangalore, una realtà così importante da costituire adesso una reale minaccia per il sistema dell’informatica americana.
Quindi, attenzione: se non siamo reattivi, se non cerchiamo con velocità di acquisire le competenze di cui parlavamo, in futuroi potremmo avere delle gravi situazioni da affrontare.   Perciò quella che definiamo green economy, non è solo un’opzione culturale: è proprio l’unica via d’uscita se vogliamo rimanere tra i paesi occidentali.