RACCONTAMI L'UMBRIA

Ottobre 2018

"Voltati, Bianca"

Articolo partecipante a Raccontami l'Umbria 2019 - sezione Turismo Ambiente e Cultura

di Martina Pazzi

Si volta verso l’osservatore, che, curioso, la scruta, collegando gli ideali puntini propri delle leggi di unificazione figurale che dagli stilemi floreali della gonna verde giungono ai motivi decorativi della teiera che tiene in mano, Bianca Bocchi, figlia del pittore Amedeo, che la ritrae in un ciclo di oli su tela datato agli anni Venti del secolo scorso. Lo fa Bianca, ignara, forse, della teoria della Gestalt che poggia sul principio della pregnanza o buona forma: una forma regolare, la sua, simmetrica, stabile, singolare, un punto di discontinuità rispetto alle forme di quel tipo, e, dunque, un riferimento rispetto al quale altre configurazioni sono considerate mere deviazioni. Capello castano corto, a rivelare sensualmente il collo, le pietre aguzze e verdi degli occhi, il naso e le labbra pronunciati, spigolosi. E poi una teiera, attentamente sorretta con le mani, nell’atto di addentrarsi in stanze che riecheggiano i modelli seicenteschi della pittura olandese. Una moderna Giuditta di klimtiana memoria – Bocchi doveva essere stato colpito dalle opere di Klimt, che aveva avuto modo di vedere alla Biennale di Venezia nel 1910 –, dalla pelle diafana in netto contrasto con l’ambiente circostante, in penombra, e dalla posa naturale – il fianco destro leggermente sollevato – che risente della temperie modernista.

E neoclassica. Nonostante sia un dipinto del 1923. Ricerca effetti di solidità e stabilità, di solennità e rigidità, di quiete, nonostante celi sentimenti intensi – un mare a primo acchito calmo, piatto, burrascoso nel fondale –: come i bozzetti in terracotta di Canova, Bianca è dotata di audacia, immediatezza, spontaneità, di vitalità quasi palpitante. La si può vedere con l’immaginazione, e non solo con gli occhi: «con l’ideale – scriveva Mengs – intendo ciò che si vede solo con l’immaginazione, e non con gli occhi; così un ideale in pittura si fonda sulla selezione delle cose più belle di natura purificate da ogni imperfezione». Bianca, come una nuova Elena. Esposta, temporaneamente, in un museo. Un museo, che, per dirla con Angela Vettese, pare aver assunto un enorme potere: «quasi soltanto questi contenitori, che sono diventati i luoghi in cui una società sempre più laica celebra il proprio senso del sacro, sono in grado di sancire anche soltanto con l’acquisto o l’esposizione temporanea di un oggetto il suo valore di opera». Opera che, per divenire immortale, deve, come sosteneva Giorgio De Chirico, «superare i limiti dell’umano senza preoccuparsi né del buon senso, né della logica», distruggere «la monotonia del tipo, la schiavitù della moda, la tirannia delle abitudini, e l’abbassamento dell’uomo al livello della macchina», secondo Oscar Wilde. È, in definitiva, per Leo Longanesi, «un incidente dal quale non si esce mai illesi».

"Cento capolavori dell'Accademia Nazionale S.luca - Perugia, Palazzo Baldeschi e Palazzo Lippi Alessandri 

Un’esposizione di pregio e di rigore filologico, dal titolo ‘Da Raffaello a Canova, da Valadier a Balla. L’arte in cento capolavori dell’Accademia Nazionale di San Luca’ (presieduta da Gianni Dessì), allestita in Perugia, a Palazzo Baldeschi e a Palazzo Lippi Alessandri, dal 21 febbraio scorso al prossimo 4 novembre racconta di Bianca e di altre novantanove dipinti, sculture, disegni architettonici, bozzetti preparatori, di mano, fra gli altri, di Raffaello, Bronzino, Pietro da Cortona, Guercino, Rubens, Wicar, Hayez, Giambologna, Canova, Valadier, Balla, a documentare la produzione artistica fra Quattro e Novecento. Capolavori provenienti dall'Accademia Nazionale di San Luca di Roma, una delle più antiche istituzioni culturali italiane per l’insegnamento e la promozione delle arti: degno di nota, il dialogo polifonico che la mostra propone con la realtà artistica perugina e umbra tout court. Alcune delle opere appartenenti alla collezione dell’Accademia, infatti, entrano in sinergia con la Collezione Marabottini esposta permanentemente a Palazzo Baldeschi – è il caso della produzione di Jean-Baptiste Wicar – e con capolavori di storiche istituzioni perugine, come l’Accademia di Belle Arti Pietro Vannucci. Restaurate a cura dell’Associazione Forte di Bard, che le ha recentemente presentate nella sua sede in Valle d’Aosta, salvaguardate e sistematizzate, anche grazie a un sostegno per la ristrutturazione dei depositi dell’Accademia, dalla Fondazione CariPerugia Arte, le cento opere provenienti da San Luca sono state sottoposte ad un lavoro costante di scavo, ricognizione e studio, rendendo fruibile al pubblico il patrimonio artistico dell’istituzione romana, prima con la mostra valdostana e, poi, con questa perugina in un ideale anello di congiunzione fra l’Urbs e l’antica Perusia.

La temporanea, curata da Vittorio Sgarbi, è frutto della proficua collaborazione fra la Fondazione CariPerugia Arte e l’Accademia Nazionale di San Luca ed è seguita, passo passo, da un raffinato catalogo editato da Fabrizio Fabbri, che ne esamina le opere mediante schede scientifiche di pugno di specialisti e di critici d’arte, oltre che da testi dello stesso curatore e del segretario generale dell’istituzione romana, Francesco Moschini, che vi traccia, con piglio storico, una panoramica dell’Accademia. Un’operazione espositiva, questa, come scrive Francesco Moschini nel catalogo, volta a portare «l’Accademia fuori dall’Accademia», traghettando fuori dai suoi confini cronologici un’idea elaborata dal pittore bresciano, attivo a Roma, Girolamo Muziano – non è un caso che il seicentesco Ritratto di Girolamo Muziano, attribuito a Giuseppe Ghezzi, sia stato collocato ad apertura della mostra –, che ha saputo convertire l’eredità delle Università, al tramonto degli anni Settanta del Cinquecento, nella prima accademia romana del disegno per pittori e scultori, nucleo di quella che sarà, poi, l’Accademia di San Luca, originatasi dall’antica Università delle Arti di Pittura di Roma, e passando anche attraverso il trasferimento della chiesa di San Luca a quella di Santa Martina al Foro Romano, la fondazione dell’istituzione da parte del primo Principe, Federico Zuccari nel 1593 e l’approvazione dei primi Statuti nell’anno 1607.

«La mostra ci permette – afferma ancora il segretario generale dell’istituzione romana – di comprendere possibili, probabili ampliamenti di una futura, straordinaria Galleria accademica che possa tener conto dell’incremento, nel corso del tempo, della collezione e, contemporaneamente, dell’evoluzione degli spazi espositivi in cui si trovavano le opere, dalla sede storica di via Bonella al Foro Romano, fino all’attuale ridefinizione degli spazi espositivi di Palazzo Carpegna, il cui allestimento è ancora in via di completamento, senza dimenticare il prezioso nucleo di dipinti proveniente dalla Pinacoteca Capitonale e andata smarrendo, almeno se guardiamo al carattere identitario dei musei nazionali di tutto il mondo con il loro criterio storicistico, troppo spesso catastale e notarile per la loro vocazione didattica, come si conviene a un museo pubblico».

«Mi sono chiamato – è stata l’exhortatio di Vittorio Sgarbi, nel saggio da lui curato per il catalogo della mostra – (…). L’Accademia Nazionale di San Luca ha lo scopo di promuovere le arti e l’architettura, di onorare il merito di artisti e studiosi, eleggendoli nel Corpo accademico, di adoperarsi per la valorizzazione e la promozione delle arti e dell’architettura italiane (Statuto 2005, articolo 1). Presidenti, meglio, Principi e amici, Fabrizio Clerici, Venanzo Crocetti, Nicola Carrino, Leonardo Cremonini, Paolo Portoghesi, e alcuni molto vicini e affini, ho sempre sofferto, considerandomi buon interprete dell’articolo 1 dello Statuto, di non essere mai stato chiamato fra gli Accademici di San Luca, anche corrispondenti, nella classe degli storici dell’arte, ben rappresentata. Non ho mai capito perché, se non come una ingiustificata penitenza, avendo anche promosso, in qualità di presidente della Commissione Cultura della Camera dei Deputati, la riforma delle Accademie e dei Conservatori. Niente da fare. Nessuna chiamata. E allora mi sono chiamato, agitando l’idea presso gli amici del Forte di Bard in Valle d’Aosta, consigliere Gabriele Accornero, di far conoscere l’imponente collezione in una antologia ricca e sorprendente, fuori di Roma, e con una puntuale e rinnovata catalogazione (…). Le nobili sale dei palazzi Lippi Alessandri e Baldeschi a Perugia accolgono ora, in ordinata sequenza, alcune pitture e sculture, tanto notevoli quanto poco viste, della gloriosa Accademia di San Luca che, a Roma, ne espone con stabile selezione in luminose sale espositive insufficienti a contenere il numero esorbitante di opere conservate nei depositi. Doni di investitura, di Principi e di Accademici, come Pietro da Cortona (che riproduce i Baccanali di Tiziano, e progetta la chiesa di San Luca e Martina di cui resta la maquette lignea), Maratti, Angelika Kauffmann, Canova e Thorvaldsen. E anche notevoli lasciti di Accademici, perché gli allievi imparino. Con provenienza da collezioni illustri come quella dei Barberini e del Barone Lazzaroni con rare problematiche tavole (…)».

E, proprio dalla collezione Lazzaroni, proviene una delle opere ‘più seducenti dell’Accademia’, secondo Vittorio Sgarbi: La tentazione di Paris Bordon «con le figure affiancate, di lontana ascendenza giorgionesca». Seducente, sensuale, vitalistico – un trionfo d’amore – anche il bozzetto che reca la firma di Rubens, con Le ninfe che incoronano la dea dell’abbondanza. Abbondanza di matrice raffaellesca, infine, nella ‘purissima’ Madonna con il Bambino che le porge un frutto di Giovanni Battista Salvi detto il Sassoferrato: dall’espressione trasognata della Vergine allo sguardo dialogante con l’osservatore di Gesù, il binocolo dell’attenzione focalizza sulla meletta proporzionata alla piccola mano, rosata come la guancia del putto, gioiosamente succulenta e generosamente porta.

"Voltati, Bianca" - segue

Dodici, le sale espositive, con le cento opere disposte in senso cronologico, lungo un asse temporale che, dal Cinquecento, si dipana sino al Novecento: il percorso espositivo prende avvio, a Palazzo Baldeschi, con il ‘Modello architettonico della chiesa dei Santi Luca e Martina’ al Foro Romano, realizzato in gesso e legno su scala 1:50, per poi snodarsi, dapprima, nella Sala dei Quattro Elementi, proiettandosi sul Ritratto di Girolamo Muziano di Giuseppe Ghezzi, che rende omaggio al fondatore dell’Accademia nel 1577.

"Sala dei 4 elementi" - Palazzo Badeschi, Perugia

Il Ritratto di Girolamo Muziano e il Putto reggifestone, rara testimonianza della pittura a fresco di Raffaello, rappresentano, fra gli altri, notevoli testimoni della pittura del Cinquecento esposti in questa sala: il breve di Gregorio XIII, datato al 13 ottobre del 1577 e ritratto in mano dell’effigiato nel primo dipinto, sancisce la ferma volontà, espressa dal Muziano, di istituire un’accademia, oggettivata in questo bel ritratto, dal ductus pittorico solenne, in linea con l’immagine accademica del pittore, con gli strumenti del mestiere e, non da ultimo, con l’accento posto sugli emblemi e sui documenti della cancelleria pontificia. Il putto reggifestone, dal canto suo, attribuito al Sanzio, presenta punte di affinità con quello che affianca a sinistra il Profeta Isaia dipinto dal maestro urbinate negli anni Dieci del Cinquecento nella chiesa romana di Sant’Agostino.

"Putto reggifestone" Raffaello S.,Palazo Badescu, Perugia

La Sala della Sapienza accoglie, fra le altre, due opere del Bronzino, il Sant’Andrea e il San Bartolomeo, eseguite per la pala d’altare della chiesa Madonna delle Grazie a Pisa e rimossa negli anni Ottanta del XVI secolo: vendute nel 1821 all’Accademia di San Luca dal pittore neoclassico Vincenzo Camuccini, le due tavole si inerpicano lungo un fuoco prospettico, in direzione della tavola con il Cristo portacroce, indicato dai motivi geometrici del pavimento, e dalle linee anatomiche sapientemente distribuite.

La Sala della Verità ospita, ad esempio, per il visitatore lieto, il Bacco e Arianna di Pietro da Cortona, che richiama i Baccanali di Tiziano in un connubio di versatilità, tecnica e inventiva, di leggerezza fittizia sottesa al sapiente impianto compositivo dell’opera, gioioso negli accostamenti di colore, nella tensione verso sinistra, nel dinamismo dei soggetti raffigurati, nello studio dell’anatomia.

"Sala delle muse" - Palazzo Badeschi, Perugia

Nella Sala delle Muse sono esposte anche opere di esponenti della pittura fiamminga e olandese, come Peter Paul Rubens e Anton Van Dyck: il primo è presente con Le ninfe che incoronano la dea dell’abbondanza del 1622, raffigurate secondo i modi più tipici del pittore fiammingo e intente a disporre sul capo della donna al centro, connotata da una cornucopia, simbolo di abbondanza, una corona; del secondo artista una Vergine con angeli musicanti, datata al 1627, la cui architettura compositiva risulta qui complicata per la presenza, in basso, del globo e del serpente, allusione al mistero dell’Immacolata Concezione.

La Sala di Diana ed Endimione, la cui volta centrale è occupata dagli stemmi di Ubaldo Baldeschi e di Tecla Balleani e dall’immagine dell’omonimo mito del bellissimo fanciullo immerso in un sonno eterno e di Diana che, invaghita di lui, si reca a trovarlo ogni giorno, mito raccontato nei Dialoghi degli Dei di Luciano, propone una selezione di opere di mano dei maggiori esponenti dell’arte seicentesca romana e napoletana e non solo: lo sguardo del visitatore è catalizzato dal dipinto dell’austriaco Daniel Seiter, Loth e le figlie, dalla pittura vaga e dal vigoroso uso del colore, dall’intersecazione dei piani direzionali, dal sapiente ricorso alla luce quasi caravaggesca.

Negli ultimi due spazi espositivi di Palazzo Baldeschi, la Sala dell’Architettura e il Salone degli Stemmi, prende in esame, rispettivamente, il prolifico periodo settecentesco dell’Accademia, volto alla istituzionalizzazione di concorsi per artisti, a partire da quello Clementino, il cui termine post-quem è il 1702 – il concorso fu vinto, nel 1775, da Giuseppe Valadier, di cui la sala accoglie due progetti, fra cui la planimetrica del progetto di sistemazione di piazza del Popolo –, e alla promozione della produzione di artisti come Carlo Maratti, caposcuola a Roma della pittura di impostazione classicistica e di derivazione emiliana: dell’allievo prediletto di Andrea Sacchi, la mostra propone un "Giaele uccide Sisara", degli anni Novanta del Seicento, una storia ‘in quadri piccoli’ come l’ha definito Giovanni Bellori, erudito e biografo dell’artista, tratta dai cartoni preparatori per la decorazione musiva del vestibolo della cappella della Presentazione nella Basilica di San Pietro.

L’Ottocento e il Novecento, invece, sono ben rappresentati e oggettivati nelle opere esposte a Palazzo Lippi Alessandri: non un secolo qualunque, il XIX, non un anno qualunque, il 1810, quando, all’epoca del governo francese, venne ufficialmente assegnato all’Accademia l’arduo compito della formazione degli artisti, istituendo numerosi concorsi, fra cui anche quello voluto da Antonio Canova. Questo fino al 1874, anno in cui, a seguito dell’annessione di Roma al Regno d’Italia e alla sottrazione all’Accademia della finalità della didattica, l’istituzione dovette lasciare le aule di via Ripetta a Roma per trasferirsi nella sede storica al Foro Romano. Questa seconda parte del percorso espositivo si apre con il Ritratto di Giuseppe Valadier eseguito, tra il 1827 e il 1828, dal già citato Wicar, che sottende un intento evocativo, a partire dalla tela stessa, cosiddetta ‘da imperatore’. Seguono gli esponenti del Neoclassicismo, come Francesco Hayez, presente con Ulisse alla corte di Alcinoo, della metà degli anni Dieci dell’Ottocento, il cui soggetto si riferisce all’episodio omerico in cui Ulisse commuove all’ascolto della narrazione delle gesta di Troia, rivelando, così, la propria identità. Il Novecento, infine, si apre nel segno del ritratto, in una struttura circolare con l’esposizione a Palazzo Baldeschi: il riferimento è all’opera Primi e ultimi pensieri (Autoritratto) di Giacomo Balla, del 1949, in cui l’artista futurista accosta il proprio volto a quello della produzione di un autoritratto della figlia Elica: l’allusione al mestiere di artista è, qui, velata, sottile, immortalata in una dimensione domestica.

La stessa che era stata propria, naturalmente, di Bianca.

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