VISIONI D'IMPRESA

30 giugno 2012

La Tipografia d’epoca che stampa come nel 1800

di Claudio Sampaolo

Un Museo per definizione non può essere vivente, ma ogni regola ha le sue eccezioni, come quello di Gianni Ottaviani, ottavo discendente della storica famiglia Grifani- Donati, pionieri della tipografia di Città di Castello, che aprirono bottega nel 1799. Perché qui le macchine non sono oggetti inanimati da lucidare e spolverare col piumino, qui dopo due secoli funzionano ancora “ e per questo – puntualizza Ottaviani - siamo l’unica tipografia attiva in Europa con tecniche di stampa diretta. Come facevano tutti prima che arrivasse l’offset. In pratica la carta viene direttamente attaccata alle matrici, che siano di pietra, caratteri di piombo o calcografica. Sono macchine che funzionano solo a mano o a pedale, per assurdo se andasse via la luce per sempre noi non smetteremo mai di produrre”. La Tipografia Grifani-Donati è stata recentemente premiata a Roma nell’ambito della manifestazione “Italia 150. Le radici del futuro”, evento dedicato alle realtà produttive più longeve del Paese, dal presidente della Camera di Commercio di Perugia Giorgio Mencaroni e dal presidente di Unioncamere nazionale Ferruccio Dardanello. Un riconoscimento importante per l’azienda fondata da Francesco Donati e Bartolomeo Carlucci e via via conservata e implementata, nel vecchio monastero del 1100 al numero 4 di Corso Cavour, dove si sono alternati in sequenza Biagio Donati, Giuseppe Grifani, Ernesto Grifani, Alberto, Mario, Italo e infine Gianni Ottaviani che oggi dirige la tipografia assieme alla moglie Adriana con l’aiuto dei figli Milos e Alberto Maria. Come dire che la storia non si fermerà qui, dove il profumo dell’inchiostro, il pavimento in cotto e le travi in legno danno l’impressione, veramente, di tornare indietro di qualche secolo. “Del resto – elenca Ottaviani – quelli che vede sono autentici pezzi d’epoca: due planocilindriche per stampare giornali, libri e locandine, fino ad un formato di 100/128 (la più preziosa è una Werk Augsburg del 1910), quattro pedaline o platina (tra le quali una Tiegeldruk 1903), per stampare biglietti da visita e carte intestate, fino a 35/50, un torchio tipografico del 1864 della ditta “Elia Dell’Orto” ed un torchio calcografico “Paolini” per manifesti fino a 100/110 di formato, infine un torchio litografico “Krause” del 1906 ed uno a stella firmato “Bollito & Torchio” del 1880. In più abbiamo ancora oltre 350 tipi di carattere in lega, 50 tipi in legno, fregi e cornici, xilografie, galvanotipie, clichè. Tutto questo “armamentario” ci consente di realizzare, affidandoci alle antiche tecniche tradizionali, litografie, calcografie, manifesti, carte intestate, biglietti da visita, partecipazioni nuziali, ex libris, nonché tutti i tipi di legature: in pelle, similpelle, tela, canapa, stoffa”.

Ottaviani, come si tengono in forma queste “vecchiette” pluricentenarie? Il gioco vale la candela?

“Certamente, qui non c’è tecnologia, non ci sono attrezzature automatiche né computer, appena appena un po’ di corrente, ma poi i torchi sono manuali, ci sono le pedaliere, la “puntatura”, cioè il posizionamento della carta sotto le macchine avviene a mano, foglio per foglio. Dunque per fare manutenzione basta un buon meccanico tornitore o un buon fabbro. Si sostituiscono le bronzine, qualche pezzo di ferro, e tutto riparte magicamente come prima. Per questo continuo a lavorare in questo mio Museo, dove sono cresciuto, perché qui i miei nonni abitavano e passavo spesso le giornate ascoltando il rumore dei torchi. Poi la sera, quando gli operai se ne andavano, avevo campo libero, facevo disegni, collage con i pezzi di carta colorata che restava in terra dopo i tagli, memorizzavo il funzionamento di queste macchine”.

E la prima volta che ne ha potuta “pilotare” una in prima persona?

“A 14 anni, ma fu quasi una tragedia. Quel giorno avevo fatto “salina”, ma papà mi pizzicò in piazza alle 8,30 e mi portò in tipografia. ‘Se non vai a scuola vieni ad aiutarmi, devo finire delle buste per la Buitoni’ disse. Alle 9,30 avevo già infilato la mano destra dentro la “platina”, all’ospedale mi volevano amputare la mano, poi papà fece venire un chirurgo ortopedico da Firenze, Scaglietti, che fece un mezzo miracolo e la mia mano è ancora al suo posto. Ma certo, considerando che per lo shock mi caddero pure i capelli e che papà ci stette male a lungo, c’è voluta una grande forza di volontà ed un amore per questo lavoro visto che a 62 anni sono ancora qui…”.

Mai pensato ricreare qualcosa di suo, non solo riprodurre i lavori degli altri?

“Sì, è successo da poco. Nei primi giorni di aprile abbiamo inaugurato la mostra “Mono Tipi”, io e Francesco Fantini, un artista-ceramista. Abbiamo fatto un esperimento, mettere insieme un artigiano ed un artista e sono venute fuori opere assolutamente uniche. Lui mi ha un po’ “sconvolto” convincendomi ad usare le mie macchine in maniera non tradizionale, mescolando le tecniche tipografiche, calcografiche e litografiche. Ed i risultati sono stati a dir poco eccezionali. Forse anche le vecchie macchine sono rimaste contente di questa ventata di piccola rivoluzione tecnica…”.