RACCONTAMI L'UMBRIA

San Costanzo e il principe dei torcoli. Il 29 gennaio Perugia diventa un dolce.

Articolo partecipante alla categoria Mestieri, Imprese e Prodotti - Raccontami l'Umbria 2017

di Marilena Badolato

 

UNA CITTA’ E TRE PATRONI. Uno di loro molto amato e affettuosamente ricordato, Costanzo, santo dal culto diffuso, come dimostrano le chiese erette ab antiquo in suo onore. Primo vescovo di Perugia, martirizzato intorno al 170 e alla data del 29 gennaio come riporta il Martyrologium Hieronymianum, il Martirologio Geronimiano, la più antica raccolta di santi martiri cristiani. Decapitato all’altezza del “trivio” di Foligno, forse vicino Trevi, in una località che nel 1600, al tempo dello storico e presbitero folignate Ludovico Jacobilli, (Vite de’santi e beati dell'Umbria, ed. anast. Bologna 1971) era ancora chiamata “campagna di San Costanzo”. Lì in seguito sorse una pieve intitolata al vescovo perugino e demolita, sempre secondo lo storico, nel 1527. E il corpo del santo trasportato segretamente a Perugia e sepolto nell’“Areola fuori Porta San Pietro”, il pomoerium, da post-moerium, dopo le mura.

 

 

SAN COSTANZO DELLA GRAN FREDDURA, SAN LORENZO DELLA GRAN CALURA, L’UNO E L’ALTRO POCO DURA, recita un proverbio perugino ad indicare che la festa invernale di un patrono e quella estiva dell’altro, sono caratterizzate da climi estremi, ma entrambi ormai al termine. E un tempo era molto freddo a Perugia in quella data, ma i perugini comunque a piedi raggiungevano la Chiesa di San Costanzo consolandosi del fatto che quel freddo e quella neve sarebbero durati ancora poco, perché febbraio era alle porte con le giornate più lunghe che facevano presagire la primavera incombente. La chiesa, costruita nel luogo della tomba del martire, fu a lui ufficialmente dedicata nel 1205. “Nell’anno 1205, Indizione VII per la festa di San Luca evangelista, è stata dedicata la Chiesa di San Costanzo ad onore di Santa Maria, di tutti i Santi e Sante di Dio, del beato Costanzo ed Eusebio, del beato Michele Arcangelo, di San Giovanni Battista e di San Nicola. Il presbitero Alessio fece fare” si legge nell’iscrizione latina sul fronte della lastra marmorea che fa da sostegno al tabernacolo. Era così freddo lungo quella strada innevata, la via Sacra, che i perugini percorrevano a fatica la vigilia della festa del santo, dalla cattedrale alla piccola chiesa, portando in mano i ceri e le torce nella processione della “Luminaria”: ché almeno quelle fiammelle potessero scaldare un poco il corpo e lo spirito. Nel 1310 i Magistrati che governavano il Comune di Perugia cioè il Consiglio dei Priori: “ordinano di dare al Clero cittadino, ai Rettori dei 44 Collegi della città e a quanti hanno una rappresentanza civica, una candela per la Processione dei Lumi, solita farsi la vigilia della solennità di San Costanzo, il 28 Gennaio al vespero”. Tutte le corporazioni dovevano partecipare alla processione, “pena una multa di 10 libbre di moneta cortonese di fatto”. E i Santi patroni, come risulta da Statuti comunali risalenti al 1266, venivano generalmente portati in processione insieme alle statue in bronzo del nostro Grifo e Leone, i cui originali sono oggi conservati nell’atrio del Palazzo dei Priori. Una penitenza a remissione dei peccati come avveniva per tutte le processioni di fede, insieme a una preghiera corale da rivolgere a Costanzo, ma anche un simbolo cittadino a cementificare una appartenenza identitaria comune. E una volta a casa i perugini trovavano quel pane dolce impastato con l’uva appassita, un torcolo dalla forma ben nota, quella dei numerosi stampi appesi alle pareti delle nostre cucine. Un pane benedetto che serviva a festeggiare, anche a tavola, un santo patrono. E con voluttà, ai tempi di quando il corpo e lo spirito andavano a braccetto, quando l’anima gioiva se anche lo stomaco raggiungeva la sua gratificazione. E si intingeva quella fetta di torcolo nel vinsanto, il vino delle ricorrenze, delle date da tenere a mente, il vino fatto con quei grappoli spargoli appesi nelle soffitte e salvati dalla avida ”conta dei chicchi” dell’ultimo dell’anno che donava fortuna e ricchezza. Spremuti poi e messi nelle piccole botticelle, nei caratelli, succo già dolce e già un po’ vecchio e appassito, ad acquistare ancor più profumo di casa, di cucina, aroma di buono. Come se il torcolo acquistasse santità intinto in quel vinsanto, come se tutto fosse stupendamente e armoniosamente giusto. E così il torcolo diventava un simbolo per fare festa, per stare insieme, per godere quel giorno di un cibo speciale. Magico equilibrio di quando i giorni di magro si alternavano a quelli di festa, il pasto abbondante all’astinenza di un calendario liturgico da rispettare, creando inconsapevolmente un antesignano, moderno e salutare stile di vita.

 

SARANNO CINQUE QUEST’ANNO I DONI TRADIZIONALI OFFERTI AL PATRONO IN PROCESSIONE, con figuranti in costume medievale a ricordare l’evento “Perugia 1416”: il cero, l’incenso, la corona di alloro, il torcolo e il vinsanto a testimoniare il connubio con la dolce ciambella, entrambi simboli di feste familiari e importanti ricorrenze.

IL CERO è donato dal Sindaco come “segno della disponibilità degli amministratori pubblici ad essere attenti, a vedere i bisogni di tutti, anche dei più deboli e indifesi e a promuovere con onestà e saggezza ciò che giova al bene comune”. Portato dal Rione di Porta Sant’Angelo, che ha come emblema il fuoco. a simboleggiare la luce della prima cattedrale perugina.

L’INCENSO è donato dal Consiglio Pastorale parrocchiale come “segno importante di sacralizzazione e benedizione, della forza della fede nell’annuncio del Vangelo sull’esempio del Santo martire, particolarmente oggi, tempo in cui il coraggio, la fedeltà, la coerenza sono messi alla prova ed è messa alla prova la carità dei figli di Dio”. Portato dal Rione di Porta San Pietro, luogo della prima cattedrale perugina.

LA CORONA DI ALLORO, donata dalla polizia municipale, è il “segno di devozione e testimonianza di dedizione al bene comune attraverso l’azione di ordine pubblico, che mira alla pace e alla concordia”. Portato dal Rione di Porta Eburnea, che rappresenta il verde degli orti perugini e del contado.

IL TORCOLO è l’omaggio degli artigiani e commercianti che lo creano per la città: “segno di quanti si impegnano ogni giorno a migliorare le condizioni dei lavoratori e per tutti coloro che, con il loro lavoro, contribuiscono alla prosperità del corpo sociale”. Portato dal Rione di Porta Sole, il luogo dei molini e della produzione delle farine.

IL VINSANTO è donato da tutti i vignaioli umbri della “Strada del Vino” a ricordo del connubio da sempre tra torcolo e vinsanto. Portato dal Rione di Porta Santa Susanna, l’unico rione collegato a un elemento liquido, quello del lago Trasimeno.

 

PRINCIPE DEI TORCOLI: PER SAN COSTANZO SENZA TORCOLO MAI. E dicesi torcolo quello che tutti gli altri chiamano ciambella. E così il 29 gennaio di ogni anno Perugia diventa un dolce. Non uno dei suoi tanti torcoli, ma il “ principe” dei torcoli, dedicato al primo vescovo della città. L’aroma conosciuto invade le case, le vie, quei vicoli dove la luce precipita dai tetti, inonda la piazza principale, quella che vive della Fontana, e corso Vannucci dove viene distribuito dall’amministrazione comunale a tutti i suoi cittadini, in segno di beneaugurante inizio dell’anno. Tra case strette e chiuse, lanciate da terra a tetto e raggrumate nel disegno di antiche mura disposte in doppio cerchio etrusco e medievale, tra le tante chiese, illuminate da rosoni di intagliata bellezza e da vetrate policrome, che risuonano in questo giorno di campane a distesa per un patrono da ricordare, primo vescovo della città e martire, Perugia diventa un paesaggio dell’anima, tra cielo e terra, percorso da strane linee urbanistiche di un luogo antico dal cuore moderno, dove la Fontana dei Pisano convive con i vagoncini rossi del Minimetro. Tradizione e innovazione confuse in un abbandono del prima e del poi a favore di un oggi e di un qui. Ma per sempre. La nostra città ai tempi dei tempi e ancora oggi. Con un santo molto amato e un dolce manufatto, perché questo era il modo per celebrare una festa che univa sacro e profano e che soprattutto apriva il nuovo anno. Dove una fiera si univa a una sacra processione nella quale il patrono sfilava insieme ai simboli cittadini del Grifo e del Leone. Dove a tavola quel giorno si festeggiava con una cucina crapulona, pensando a quella morigerata dell’indomani. Torcolo di San Costanzo, con ingredienti stabiliti da un disciplinare depositato con atto notarile dall’Accademia italiana della cucina, che non devono mancare mai e rigorosamente quelli- uvetta, pinoli, cedro candito, semi di anice- e soprattutto con il foro centrale perfettamente rotondo. Guai se mancassero questi elementi identitari, significativi di un dolce e di una storia. Il torcolo, con la sua forma a simboleggiare la perfezione, l’universo nel suo eterno divenire con un principio e una fine, diventa allora proprio nell’aspetto, un simbolo: il nostro passato, che è ancora oggi il nostro presente e il futuro.

 

PRINCIPE DEI TORCOLI: DOLCE DI GENNAIO, DOLCE DELLA SPERANZA. Dolce di Giano, il dio che chiude una porta e ne apre subito un’altra. La forma perfettamente rotonda del torcolo, a spirale, è dedicata al dio Giano, la divinità così presente nella nostra regione in tanti borghi e paesi: Giano dell’Umbria, Torgiano, Pissignano. Dio di gennaio, cui regala il nome, che chiude l’anno vecchio e apre il nuovo, dio bifronte, bicefalo, che guarda contemporaneamente al passato e al futuro. Nell’antica Roma “dio della doppia porta”, lo spirito della soglia che presiede agli iani, passaggi delimitati da 2 pali, attraversati in alto da un terzo, aperti sulle pubbliche vie, che egli apriva e chiudeva favorendo così le andate e i ritorni. Dall’indoeuropeo ei- “andare” > (ei)-įa-no- “passare”, “continuare”. Anche nelle antiche Tavole di Gubbio, troviamo nominate focacce rotonde sacrificali: ” Poi in vasi da cerimonia senza difetto offra dei pani a ciambella…” (Il sacrificio delle Sestentasie tavola IV) . E i dolci, ricordando questo assioma nella forma, sono infatti in modum rotae ficta, cioè plasmati a forma di ruota. Del resto lo stesso dio, ben presente alla religione latina e italica, era rappresentato dai popoli antichi a forma di serpente avvolto su se stesso. Nei Saturnali, I, 9, 11-12, Macrobio, a proposito di Giano, dice: “… quindi Janus da ire, andare, perché il mondo va sempre muovendosi in cerchio e, partendo da se stesso, a se stesso ritorna.” Per questo Lucio Cornificio (autore, come riporta Quintiliano, dell’opera Rethorica Ad C. Herennium) dice a proposito di Giano: ‘Cicerone scrive non Janus ma Eanus da ire, andare’. Donde anche i Fenici (dai quali provengono i Cartaginesi, contigui e affini agli Etruschi), raffigurando nel culto la sua immagine, lo rappresentano come un serpente avvolto a cerchio che si morde la coda, simbolo del mondo che si nutre della propria sostanza e ruota su se stesso”. Egli presiede agli inizi di tutte le cose: del giorno, del mese, dell’anno e anche del tempo. Un dio del passato e del futuro, della tradizione e della innovazione. Un dio capace di gettare un ultimo sguardo sul passato (l’anno che stava per concludersi) e vigilare sull’avvenire (l’anno che stava per iniziare). Un dio della speranza allora. Un dolce della speranza, allora, in un nuovo inizio.

 

PRINCIPE DEI TORCOLI: DOLCE DEGLI INNAMORATI, e non soltanto per il famoso ammiccamento che fa l’iconografia del Santo nella omonima chiesa alle ragazze che si sposeranno entro l’anno, sembra fenomeno di rifrazione della luce in certe ore del giorno, E ancora non soltanto perché per questo i fidanzati lo regalavano alle promesse spose portandolo infilato nel braccio, dopo averlo comperato in quelle grandi fiere e mercati dove veniva venduto infilzato su lunghi bastoni. Ma soprattutto per i suoi ingredienti considerati, dal mondo antico, stimolanti e afrodisiaci. Un pane dolce, con quei pinoli a cui la storia antica attribuiva proprietà rinvigorenti soprattutto in unione con l’uva. E solo più tardi il cedro, edulcorato con la tecnica araba della canditura con il “pretioso zuccharo”. L’uva passa, fosse stata la Sultanina, la Malaga o di Cipro o l’arabo Zabib, che era il corredo migliore dell’uva perché senza semi, oppure l’uva di casa, quella appesa nei solai ad asciugare, era da sempre legata alla fecondità e a Roma focacce all’uva venivano regalate agli sposi. Se poi era unita al magico seme del “pignolo”, trasmetteva un chiaro messaggio di vigoria sessuale. Motivi mitologici, magici e medici contribuirono sin dall’antichità a dare origine alla fama dei pinoli, considerati straordinari potenziatori di fertilità. Già i Frigi, popolo originario dell’Anatolia centrale, adoravano il pino non solo per la sua bellezza sempreverde, ma anche perché forniva dei frutti con i quali preparare un vino inebriante, quel vino che i greci dedicavano a Dioniso e i latini a Bacco, durante le feste dedicate al dio. Simbolicamente rappresentava la forza vitale, la fertilità e l’abbondanza ed allo stesso tempo l’associazione pigna-vite, anche se apparentemente singolare, derivava dal fatto che la resina prodotta dalle pigne migliorava il vino donando ebrezza ad ebrezza: infatti veniva utilizzata per sigillare le anfore, prevenendone così l’ossidazione del vino stesso e garantendone più a lungo la conservazione. Nella letteratura latina vi sono numerose testimonianze sulla fama afrodisiaca dei pinoli. Ovidio li elogiava nella “Ars amatoria” come uno dei cibi sicuramente capaci di favorire l’amore, mentre Plinio scriveva: “I pinoli spengono la sete, calmano i bruciori dello stomaco e vincono la debolezza delle parti virili”. Quasi 1000 anni dopo, il medico e filosofo arabo Avicenna sentenziava che i pinoli aumentavano lo sperma e provocavano il coito. Uvetta e pinoli costituivano insieme un connubio perfetto per una ricetta da innamorati. “Si dice che i pignoli mangiati piuttosto spesso insieme con uva passa stimolino l’attività sessuale, anche quando sia carente; il medesimo effetto hanno conditi con lo zuccharo.”, scrive un grande cuoco quattrocentesco. La presenza del cedro candito poi regala preziosità al torcolo, poiché era considerato il capostipite di tutti gli agrumi esistenti ed entrava in preziosi elisir per il suo impiego medicale. Ricchissimo di vitamine e sali minerali, il cedro fu introdotto e diffuso in Italia tra il terzo ed il secondo secolo avanti Cristo da ebrei ellenizzati che, al seguito delle navi achee, approdarono sulle coste delle colonie della Magna Grecia, portando questa pianta che consideravano sacra. Oggi questo frutto è diffuso soprattutto nella parte meridionale della nostra penisola, in Campania, Calabria e Sicilia: famoso è il “Museo del cedro” di Santa Maria del cedro, a Cosenza. Il cedro veniva “condito con il prezioso zuccharo”, cioè candito, parola che deriva dall’arabo quandat che indica il succo di canna da zucchero concentrato, e il conseguente procedimento di conservazione che si ricollega alla diffusione dello zucchero nel bacino del Mediterraneo ad opera degli Arabi. L’anice, tra le piante aromatiche più conosciute e usate in tutto il mondo fin dall’antichità, era molto diffusa tra gli Egizi, Greci e soprattutto tra i Romani che la usavano per insaporire pietanze, nonché per aromatizzare piccoli dolcetti. La pimpinella anisum, oltre alle conosciutissime proprietà digestive, aromatiche e disinfettanti, veniva utilizzata anche per le proprietà afrodisiache. Dioscoride Pedanio (I sec. d.C.) nel “De materia medica”, ricorda che i Latini attribuivano all’anice specifiche qualità tra le quali quelle di combattere l’impotenza, di stimolare il coito. Nel Medioevo furono i monaci che, per primi, incominciarono a sperimentare il mondo dell'odierna liquoristica provando, filtrando e miscelando le erbe raccolte nelle terre e negli orti dei loro monasteri, iniziando così un'attività ancora largamente praticata. Così le proprietà toniche della pianta trovarono largo impiego presso coloro che volevano favorire la digestione dopo i sontuosi banchetti. Ma anche “rendere l’alito lieve e profumato e stimolare il desiderio concupiscente”.
 

PRINCIPE DEI TORCOLI: COSTANZO IL SANTO PREFERITO. Del trittico di patroni di cui gode Perugia, Lorenzo, il santo della nostra Cattedrale, Ercolano, il santo della “chiesa nella Rocca” e San Costanzo, il santo delle “zitelle”, quest’ultimo è il più affettuosamente festeggiato, forse perché quel giorno i perugini mangiano il torcolo. Nelle loro case, ma anche nelle strade, tutti insieme nel Borgo Bello,- il Borgo XX Giugno- dove ogni anno c’è la Fiera Grande, a Monteluce l’antichissimo quartiere perugino, il sacer lucus, e lungo Corso Vannucci, dove il dolce, preparato dai panificatori e pasticceri cittadini, viene offerto dal Sindaco a tutta la città. La storia di Costanzo, martire e vescovo di Perugia, è la stessa da secoli e secoli. Come è sempre la stessa la favola che narra che il Santo si sia sempre occupato di “sistemare le ragazze da marito”, “adocchiando” le meritevoli del suo aiuto. Ai tradizionali auguri scambiati i primi giorni dell’anno, i perugini affiancano, dai tempi dei tempi, il loro torcolo, quella ciambella con il foro centrale dove gettare tutti i pensieri, le tristezze, le frustrazioni, le ingiustizie, le delusioni personali, ma anche sociali. E come se in quella sua forma, tonda e perfetta, sinonimo di principio e di fine, si ricostituisse un mondo personale e sociale e si desse il via a un nuovo inizio. Il 29 gennaio insomma per noi comincia il nuovo anno. E lo sa bene la nostra amministrazione comunale che offre quel giorno il torcolo in segno di conciliazione, come inizio di un nuovo ciclo. E ancora una volta l’immagine del Santo nella Chiesa di San Costanzo, se ne ha voglia e se pensa che sia il caso, strizzerà l’occhio, facendo “ l’occhiolino” alle ragazze da marito, “single” diremmo oggi, che così si sposeranno entro l’anno.

 

 

E IL FUTURO REMOTO E’QUI. E oggi un nuovo torcolo, che ha mantenuto gli ingredienti storici, ma in una versione più salubre perché alleggerita nei grassi con l’impiego del solo olio extravergine di oliva, nell’uso di una farina integrale che ha regalato morbidezza e umidità all’impasto e con l’impiego del lievito madre, è stato presentato qui al “Centro Camerale Alessi” di Perugia ad opera della Università dei Sapori, da Andrea Pioppi, maestro d’arte bianca, Valentina di Tomaso, nutrizionista, insieme alla sottoscritta che ha parlato di questa lunga storia del “principe dei torcoli”. Il futuro remoto è iniziato.

 

Che meglio allora: madonne et messeri, di nomare cotesto dulce manufacto “torquolo princeps”, et in esso tolli miele bollito et schiumato o melior pretioso zuccharo et poni poi pignoli et de la bona uva passa de Corinto et cedro de zuccharo condito et profumata pimpinella anisum. Et se tu voy fare bona la ditta torta et un nuovo manufatto, oggi torquolo innovato chè d’antico est profumato, poni quela farina a petra macinata che regala humiditate et crescente de longa vita un tempo mai pensato, et distempera unum ovum crudum, et il profumo toto quanto de una pocha de uva passa et alquanto di quel cedro condito inde raschiato, et una oncia di pignoli mondi et necti, et con la herba anice pistata a secco da la historia regalata. Et post recipe oleum olive fine, viridis de Umbria sì pintato, a sostituir lo strutto di porcho bello et biancho o il butirro frescho, chè oramai di più exile forma habbiam bisogno. Et tota questa compositione mescolando con le mani incorporata molto bene. Questa torta vole poco foco sotto et bon foco di sopra, et poy fare per più o per meno, toyando le cose a giusta mesura, et quando è cotta, trannela. Et cum bono vinumsanto comede.

 

Et cum Andrea che Pioppi est nomato et Valentina che Di Tomaso est casata, hodie qui l’abbiamo tollo et presentato. Con la historia mea a narrar perché nei tempora et alla data menzionata semper torcolo est nomato, et che “princeps” sia al fin riconosciuto. Gratias ago “Studium Saporis” (Università dei Sapori) che a Perusia tolle loco e che a tutti insegna passione et foco. (Hodie 29 Ianuarius 2017).

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