RACCONTAMI L'UMBRIA

Una tranquilla fuga gastronomica nell’Umbria rurale

Articolo partecipante a Raccontami l'Umbria 2020 - sezione Turismo Ambiente e Cultura

di Julia Buckley

 

In una delle zone più lontane dal mare d’Italia sto mangiando tra i miglior piatti di pesce che abbia mai provato in vita mia.

“È perché viene dal Mediterraneo”, dice Emanuele Mazzella, lo chef. “Non mi piace il pesce dell’Adriatico – ha un sapore completamente diverso. Il Mediterraneo è più aperto, e lo sento nel pesce.”

Attenzione: Mazzella è di parte. È cresciuto a Ischia, l’isola nel golfo di Napoli, nipote di un pescatore. E il piatto davanti a me è quello che faceva sua nonna: nasello bollito con olio d’oliva, limone, e prezzemolo. Ci sento della panna, ma non ce n’è, dice – è solo l’acqua del pesce. Se il Mediterraneo riesce a rendere il nasello bollito così buono, mi ha convinto.

Mazzella è il nuovo chef di Eat, il ristorante più chic di Assisi, e nonostante sia del sud, quassù al centro è da anni uno dei migliori chef dell’Umbria. È arrivato a gennaio da Orvieto, nel sud della regione. Prima di allora gestiva un ristorante stellato a Norcia, avvolta dalle montagne, ad est – a lungo conosciuta come la capitale gastronomica dell’Umbria, ma ora tristemente ricordata come una delle città devastate dal terremoto del 30 ottobre 2016. Assistere a quel terremoto, dice, è il motivo per cui se n’è andato.

Ora, a Eat, si sta diversificando. Due dei suoi menù di degustazione si basano sul cibo tipico umbro – molta carne, formaggi, e tartufi – ma il terzo si rifà alle sue radici. Ci sono pappardelle di canapa con salsa di cozze, e fette di succosa triglia su risotto. Sarebbe un’ingiustizia se non ricevesse un’altra stella Michelin.

Ma c’è un lato ironico per tale gola ad Assisi. Questa è la città di San Francesco – un luogo in cui i monaci sembrano essere più numerosi della gente del posto, e dove la chiesa principale è coperta da sublimi affreschi di Giotto che raccontano del santo che rinuncia ai suoi beni materiali. Infatti, Eat si trova al piano superiore dell’hotel Nun, un convento convertito. Ma l’Umbria ai giorni d’oggi si rivolge ad un’alta fascia di mercato tanto quanto la sua vicina Toscana. È semplicemente più brava a nasconderlo.

Questa è sempre stata una parte tranquilla dell’Italia, in parte a causa della sua posizione: è l’unica regione della penisola italiana (a sud della Pianura Padana) a non avere una costa. Invece di mari blu e spiagge beige, l’Umbria è immersa nel verde: ondose colline che diventano grandi montagne color smeraldo, valli erbose e fitti boschi in ogni direzione.

Le uniche cose che interrompono il verde sono le città di montagna in terracotta, avvolte a spirale su speroni rocciosi e accatastate su ripidi pendii. Nel tragitto da Terni a Perugia ogni pochi minuti se ne scorge una che ti chiama dal poggio più vicino. L’unico problema è decidere in quale fermarsi.

L’Umbria ovviamente ha le sue star piene d’arte – Perugia, Spoleto, e Orvieto, per cominciare – ma, come gli eremiti che hanno pellegrinato qua nel corso dei secoli (sembrano esserci piccole cappelle su ogni montagna), io sono venuta qua per sentire il vuoto.

Soggiornare alla Tenuta di Murlo aiuta. Una vasta tenuta rinascimentale all’ombra della seconda montagna più grande dell’Umbria; la proprietaria Carlotta Carabba Tettamanti ha trasformato 7 delle 90 case in rovina della tenuta in sontuose case vacanza. Ognuna ha una piscina e acri di terra che si affacciano sul paesaggio mozzafiato: una vasta valle che si estende attraverso le colline, il Monte Subasio in lontananza (la montagna su cui poggia Assisi), e non un accenno del 21° secolo in vista.

La più recente, Castiglione Ugolino, si trova in un villaggio vicino: una chiesa e una canonica insieme convertiti in una villa esageratamente splendida, con resti di affreschi della scuola di Cimabue sulle pareti del piano inferiore e una configurazione di scale galleggianti alla Escher che conducono alle sei grandi stanze. Un’antica scala scavata nella roccia che conduce a un tunnel sotterraneo (chiuso) emerge in uno dei salotti, e la sala da pranzo si apre sulla chiesa. L’anno prossimo aggiungeranno altre quattro stanze convertendo l’edificio dall’altro lato della piscina a sfioro. Sarà una casa vacanze come nessun’altra.

Alloggio non in una villa, ma in una delle tre “camere deluxe” appena fuori dalla proprietà, presso il ristorante sulla strada di Murlo, Il Caldaro. In un edificio chic tipo villetta, sono realizzate con grande stile, in un’atmosfera da Kit Kemp misto agriturismo. Però non aspettatevi la piena esperienza di Murlo: la mia camera, altrimenti deliziosa, non mi ha dato la sensazione di lusso nei dettagli (asciugamani vecchi, linea di cortesia scombinata), e dalla piscina in comune si sente la lontana strada principale. Il tanto vantato servizio di concierge via WhatsApp è stato deludente – a volte ci sono volute ore per ricevere risposta.

Murlo si trova tra Perugia e Gubbio e la principale fonte di stress è che è vicino a così tanti luoghi da visitare. Assisi, Spoleto, Arezzo, e Montepulciano sono tutti raggiungibili in un’ora di auto; il Lago Trasimeno è a 25 km. A novanta minuti a sud-ovest, appena oltre il confine laziale, si trova la fiabesca Civita di Bagnoregio. Costruita su un promontorio di friabile tufa calcareo, i secoli hanno eroso le sue fondamenta, intere sezioni della città sono cadute nelle profondità a causa della roccia che si sgretolava sotto di esse, formando un canyon tra Civita e Bagnoregio, suo vicino “moderno” (diciottesimo secolo).

Un decennio fa era conosciuta come “La città che muore”, dato che praticamente tutti i suoi abitanti si erano trasferiti a Bagnoregio. Ma un ingegnoso piano di far pagare €5 a chi vuole attraversare il ripido ponte attraverso l’abisso ha portato milioni di visitatori e ha permesso a quelli del posto di tornare. Attualmente ce ne sono 12; Maurizio Rocchi è uno di questi. Il suo ristorante, Alma Civita, si trova in una grotta etrusca e serve eleganti versioni moderne di piatti tradizionali del villaggio – il tipo di cibo che vedresti in un ristorante top di città, ma in questo pilastro nel cielo semiabbandonato.

“Il cibo è come un libro”, dice, portandomi degli umbrichelli al ragù di cinghiale cotto con amaretto, e agnolotti ripieni di ricotta di bufala, pere, e noci. “Racconta la storia del territorio, delle persone che l’hanno prodotto, e di coloro che ci hanno lavorato.” Suo padre coltiva l’orto nella valle sottostante e produce vino e olio d’oliva; anche tutto il resto è locale. Più tardi nello stesso giorno trovo Rocchi senior ai piedi del ponte che contempla silenzioso Civita. Il crepuscolo sta calando, i turisti se ne sono andati, e rimangono solo i 12 – insieme ai 25 gatti randagi che vegliano sul villaggio. “Venivo qui ogni giorno quando vivevamo a Bagnoregio”, dice, e mi recita una poesia che ha scritto su Civita, con le lacrime agli occhi. Qui, il legame con la terra è dolorosamente forte.

Più vicino a casa, va più in profondità. Circa un’ora a sud di Murlo, a Dunarobba, si trova la Foresta Fossile – un boschetto Tolkienesco di circa 40 alberi “fossili” che hanno oltre 2 milioni di anni. Sono della famiglia delle sequoie, dice la guida Daniela, con uno spesso troncone alto tre metri che la sovrasta; crebbero insieme al lago preistorico che sommergeva gran parte dell'Umbria, fino a quando furono sepolti vivi da depositi di argilla. La loro mole ci fa sembrare delle miniature: uno ha un diametro di quattro metri, le radici di un altro si fanno strada attraverso metri di argilla sotto di esso. A differenza di alberi “pietrificati” (fossilizzati in pietra), questi sono ancora fatti di vero e proprio legno – schegge che si staccano, un profumo di cedro che filtra quando mi avvicino per annusare. Daniela li accarezza dolcemente come se fossero figli suoi.

Forse questa è l'immobilità che ha attirato tutti quegli eremiti. Si percepisce a Dunarobba; Si percepisce a Carsulae, una città romana sulla Via Flaminia, che portava fino a Rimini. Era una di quelle città amministrative senz’anima, pensano gli archeologi – la Milton Keynes dell’impero. Il forum odora ancora di denaro, una costruzione rivestita in marmo rosato sopra il mattone, un edificio di uffici pavimentato con tonalità di marmo contrastanti. Duemila anni dopo, ci siamo solo io e un gatto strabico a farci strada tra le rovine.

È una nebbiosa mattina d’inverno mentre mi avvio sulla Via Flaminia, calpestando gusci di noce aperti da corvi sulle lastre di basalto, e cercando di non inciampare nei profondi solchi lasciati dai carri romani. Viticci di foschia attraversano la valle. Carsulae si trova in una piega tra due catene montuose e la sua posizione soggetta a sismicità è ritenuta il motivo per cui fu abbandonata nel terzo secolo.

Accostata agli Appennini, questa è la zona dei terremoti d’Italia. Sulla mappa vedo nomi che riconosco per via di news internazionali: L’Aquila, Amatrice. Settanta chilometri a est di Carsulae, con la strada che si snoda attorno ai piedi delle montagne, c’è Norcia, l’epicentro di quel terremoto del 2016. Quella mattina, Emanuele Mazzella vide sgretolarsi la chiesa di San Benedetto di fronte a lui, mi disse; oggi, a tre anni di distanza, è ancora lì, un enorme mucchio di macerie con la sua facciata con rosone sostenuta da impalcature.

C’è un silenzio religioso mentre i visitatori camminano in giro – questa è ancora la capitale gastronomica dell’Umbria, nota per il suo prosciutto, salsiccia, e tartufi, e nulla si mette tra gli italiani e il loro cibo. Sulla strada principale alcuni negozi hanno riaperto. Al Norcia Food il proprietario con il grembiule bianco, Alessandro, mi dà del salame di cinghiale, prosciutto di Norcia, e tre pecorini di diversa stagionatura. Compro tutto – dopotutto, va ad aiutare i lavori di recupero. (Potete anche ordinare online su norciafood.it.)

Adesso è ora di pranzo, ma la maggior parte dei ristoranti si è trasferita fuori dalle mura crollate. E sono pure quasi tutti pieni, ma alla Cantina 48, in un elegante edificio dalle pareti di vetro con una terrazza e un giardino fuori, Mariano Agostini mi fa entrare, anche se l’ultimo tavolo sta pagando e la cucina dovrebbe chiudere.

“Questo non è il mio ristorante”, dice, quasi con imbarazzo. “Il mio era nelle mura della città. Il comune mi ha dato questo.” Alzo lo sguardo sul tetto in compensato e mi rendo conto che è un prefabbricato. Questa era una landa desolata industriale, ma l’ha abbellita tanto da assomigliare alla California del sud tra le colline di malachite. “La domenica vengono in tanti a Norcia per mangiare, ma fuori città soffriamo un po’”, dice. Non mi meraviglia che mi abbia fatto entrare.

C’è solo un modo per aiutare Norcia: mangiare. E così inizio. Calamarata alla Norcina: larghi anelli di pasta coperti di sugo panna e pecorino e salsiccia di Norcia. Fettuccine piene di tartufo nero – non i soliti tre o quattro trucioli, ma pezzi abbastanza grandi da sentirci la terra all’interno. Prosciutto di Norcia con mozzarella di bufala fresca di fattoria – “È brutta,” dice Mariano, indicando la superficie grumosa, “ma questo significa che è puro bufalo. Il latte di vacca è quello che la rende liscia.”

E poi c’è la bruschetta con salsa al tartufo: intensa, croccante, indescrivibile. Ovviamente fatta in casa. Monica, la moglie di Mariano, è la cuoca qui. “Non c’è bisogno di un cappello bianco e una gran barba per fare lo chef”, dice di lei. “C’è solo bisogno degli ingredienti.” E potete star certi che Norcia ce li ha.

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