RACCONTAMI L'UMBRIA

L’Umbria del silenzio, l’Abbazia dei monaci siriani

Articolo partecipante a Raccontami l'Umbria 2020 - sezione Turismo Ambiente e Cultura

di Paolo Aramini

Nei lunghi anni violenti e oscuri seguiti al collasso dell’impero romano, timore, difficoltà ed insicurezza spinsero le anime in cui la fede era ancora viva a trovare rifugio nella divina provvidenza. La situazione storica indusse molti a cercare il volto amorevole di Dio oltre le tenebre dell’angoscia e l’orrore del presente. Le condizioni prodotte dal generale dissesto dell’ordine pubblico, crearono il clima propizio perché il messaggio di pace e speranza recato alle genti umbre da quei monaci ispidi e schivi, ma colmi di compassione, trovasse terreno fecondo e mettesse stabili radici. L’antico Nahar, nome italico del fiume Nera, è da secoli al centro di misteriose leggende, a confermare l’importanza che da sempre il fiume riveste per le popolazioni che abitano lungo le sue sponde. Molti di quelli che avevano perduto ogni cosa seguirono gli anacoreti tra gli anfratti dei monti, nelle selve solitarie dimora di fiere e demoni. Rimasero a vivere nei pressi degli eremi, o degli oratori, prestando la loro opera come legnaioli, pastori, contadini, artigiani. In cambio d’una parola di speranza ed un tozzo di pane nero, si accamparono in tuguri simili a quelli dei monaci. Alcuni di quei profughi, seguendo l’esempio di chi insegnava loro il Vangelo, abbracciarono la vita monastica. Ma i monaci che evangelizzarono la Valnerina, oltre che portatori della Parola, erano esperti nella realizzazione di opere che rendono migliore la vita: ritenevano necessario dimostrare l’amore di cui, in nome di Dio che è Amore, si proclamano messaggeri. L’Abbazia dei Santi Felice e Mauro L’Abbazia dei Santi Felice e Mauro, in Val di Narco, spicca per il candore delle sue pietre nella valle umbra. Splendido esempio del romanico umbro, l’Abbazia dei SS. Felice e Mauro, racconta e ricorda le gesta di Mauro e Felice , giunti sulle montagne dell’Umbria nel VI secolo d.C.


Eredi delle tecniche romane di bonifica e gestione delle acque fluviali, svuotarono le paludi rendendole terra coltivabile. Dietro la leggenda dell’uccisione del drago si cela una realtà storica: la bonifica di una vasta depressione malarica prodotta dalle esondazioni del fiume Nera. La malaria, si credeva, fosse generata dall’alito velonoso dei draghi occulti tra cannetti e nelle putride acque delle paludi. Mauro e Felice, mediante i glauchi “pini d’Aleppo”, portati dalla Siria e che ancora crescono in quel lembo di Valnerina, resero salubre la zona bonificata. Un’opera di tale portata non avrebbe potuto essere compiuta senza la disponibilità di forza – lavoro locale opportunamente
motivata, impiegata e diretta.


Secondo la tradizione, ai tempi di Teodorico, Mauro era giunto dalla Siria nella Valle del Nera – l’antico Nahar sacro agli Umbri ed ai Sabini – assieme al figlioletto Felice ed alla nutrice stabilendo il suo eremo nei pressi  ell’abitato che in seguito avrebbe preso il nome di Castel San Felice. Prima di affrontare il drago rintanato in una grotta, Mauro chiese a Dio di assisterlo. Un angelo gli annunciò che la sua preghiera era stata esaudita e, prima d’imbracciare l’ascia, piantò in terra il bordone che miracolosamente fiorì. Del figlio Felice si narra che resuscitò il figlio di una vedova, scena scolpita sul bassorilievo della facciata della monumentale Abbazia. Felice e la nutrice
morirono di febbre (forse malarica) il 16 giugno del 535. Mauro morì vent’anni dopo, il medesimo giorno. 


La disposizione delle immagini sulla facciata dell’Abbazia dei Santi Felice e Mauro proclama un “manifesto”, il medesimo dell’Ordine Benedettino che si propone di testimoniare il Vangelo mediante un assiduo lavoro di trasformazione non solo delle coscienze, ma anche del territorio in modo da renderlo degna dimora dei figli redenti da Cristo. In posizione suprema, l’Agnus Dei dichiara la necessità del nutrimento ecclesiastico. I simboli degli evangelisti, la meditazione della Parola che irradia dal mistero divino simbolo divino simboleggiato dal rosone. Le gesta dei santi anacoreti sono frutti della Grazia che si manifestano nell’amore del prossimo: entrambe le
imprese – l’uccisione del drago e la resurrezione del figlio della vedova – sono volte a lenire le sofferenze del prossimo: quel prossimo in cui Gesù volle essere riconosciuto ed amato.
 

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