RACCONTAMI L'UMBRIA

Piccola Pompei

Articolo partecipante Raccontami l'Umbria 2012- sezione stampa

di Marco Merola

TESTATA: Oggi

DATA DI PUBBLICAZIONE: 21 Aprile 2011

Altro che poverello di Assisi. Duemila anni fa la città di San Fran­cesco era molto più profana che sacra, ricca di mercanti e di ville lussuosissime. «Gioiamo dell’amore no­stro finché possiamo», de­clamava il poeta Properzio che qui era nato. I suoi ver­si allietavano banchetti e feste di ogni genere. Que­sta storia straordinaria ci viene ora raccontata da una splendida domus romana scoperta nel cuore del cen­tro storico, in parte sotto Palazzo Giampé, sede del Tribunale e in parte sotto l’edificio dove si riuniva il comitato per la festa popo­lare del Calendimaggio.

Dopo aver varcato un’ano­nima porticina di servizio si comincia a scendere, nel­la penombra. Si va giù di sette metri rispetto al livel­lo stradale, fino a incontra­re quella che, a giusto tito­lo, è stata ribattezzata la «Pompei umbra». Il primo degli ambienti visitabili, anche se è l’ultimo ad esse­re stato liberato dalla terra, è un cubiculum, una stanza da letto sontuosamente de­corata. A terra c’è un mo­saico con disegni geometri­ci, oggetto delle amorevoli cure di Radu Zaharia, re­stauratore romeno di com­provata esperienza. Le pa­reti hanno colori decisi, bianche in cima, nere alla base e, al centro un rosso acceso, come se ne vede so­lo a Pompei, appunto.

Difficile, in assenza di una iscrizione o di un documento, dire a chi esattamente appar­tenne la casa, ma sicuramente fu gente di buon gusto e che aveva soldi da spendere. Forse, qualche commerciante della zona, di quelli che sfruttavano l’alto corso del Tevere per fio­renti attività di import-export. Sull’età della villa invece gli archeologi nutrono pochi dub­bi, risalirebbe alla metà del I secolo d.C., quando a Roma imperava Nerone.

La storia dello scavo comincia nel 2001, durante i lavori di re­stauro e consolidamento della città a seguito del sisma che si era abbattuto sull’Umbria nel 1997 e aveva sbriciolato pure gli affreschi giotteschi nella Basilica di San Francesco.

Le autorità locali avevano de­ciso di dotare il Tribunale di un ascensore e così si cominciò a scavare per creare lo spazio necessario per la sua corsa.

«Gli operai si bloccarono subi­to, perché appena 50 centime­tri sotto il pavimento dell’in­gresso furono ritrovati degli stucchi provenienti da capi­telli romani», spiega la dotto­ressa Maria Laura Manca del­la Soprintendenza Archeolo­gica dell’Umbria. «Così ini­ziammo un vero scavo arche­ologico per vedere cosa c’era. Erano tre colonne altissime che faceva­no parte del giardino porticato di una casa molto grande. Una scoperta sensazionale».

Gli archeologi erano scesi mol­to in profondità, per raggiun­gere il pavimento dell’antica abitazione. Avevano calcolato che il peristilio, cioè il giardi­no, potesse avere cinque colon­ne sul lato lungo e tre su quello corto. Rimaneva da trovare le stanze che vi si affacciavano.

Nel 2002 individuano la pri­ma, forse un soggiorno, mai adoperato dai padroni della domus che lo abbandonarono frettolosamente a causa di una perdita d’acqua dal vicino va­no-cisterna. Poi, l’anno succes­sivo, viene fuori il triclinio, dove i Romani erano soliti in­trattenersi piacevolmente mangiando, conversando e fa­cendosi servire da ancelle av­venenti. Lo spazio era decorato con grifoni e animali mitologi­ci, tripodi, motivi architettoni­ci a sfondo giallo e rosso, una gioia per gli occhi. Oggi, pur­troppo, ci si entra con qualche difficoltà e si devono aggirare i sostegni in cemento armato sistemati per impedire il col­lasso degli edifici sovrastanti.

«Il palazzo del Tribunale e del Calendimaggio sono stati co­struiti nel ‘600, proprio sopra la domus, ma poggiano sulla terra e non sui muri romani. All’epo­ca evidentemente nessuno si è accorto che sotto c’era una casa antica, altrimenti ne avrebbe smontato le pareti e le colonne per riutilizzarli. Da un lato è stata una fortuna, perché ne ha permesso la conservazione, dall’altro è un fatto negativo perché ci ha pregiudicato uno scavo completo. Se togliessimo fino all’ultimo granello di terra verrebbe giù tutto».

I soldi, come sempre, sono po­chi, ma la domus è troppo im­portante e va riportata alla lu­ce. Così, a cavallo tra la fine del 2010 e l’inizio del 2011, gli ar­cheologi arrivano finalmente al cubiculum. La stanza da letto, regno dell’intimità domestica per eccellenza.

«Vi dormiva una donna, que­sta immagine nuziale è tipica di un ambiente femminile», dice la Manca, mostrandoci un quadretto dove si vedono un uomo ed una donna, sulla pa­rete rosso fuoco di fronte all’in­gresso, «e poi abbiamo trovato sul pavimento una gran quan­tità di fermacapelli».

L’impronta muliebre è ovun­que. Un piccolo ciclo pittorico mostra quattro dame ben ve­stite che osservano silenziose una quinta donna intenta alla toeletta, con l’assistenza di un’ancella.

Immagini così perfette da es­sere degne del pennello di un impressionista dell’800.                          

«Sicuramente le maestranze che le realizzarono venivano dall’Urbe. Questo fa della Do­mus di Assisi un ritrovamento unico a nord di Roma». La si­gnora della casa amava attor­niarsi di oggetti sacri. Sulla so­glia della stanza gli archeologi hanno trovato un piccolo altare in terracotta con una statuina, il Lararium, dedicato alle divi­nità (Lari) protettrici della casa. Appeso al soffitto doveva es­serci l’oscillum rinvenuto in ter­ra, spaccato in due pezzi. Era un grande talismano in mar­mo, a forma di mezzaluna, che oscillava al passaggio del ven­to. Gli agricoltori lo utilizzava­no nei campi durante le feste rituali, per buon augurio. Di­venne, poi, vezzo dei ricchi e oggetto di arredamento per le loro sontuose magioni.

La domus non finisce qui. Sui circa 500 metri quadrati abita­bili che girano intorno al peri­stilio insistevano altri ambien­ti che però si trovano al di sotto di un terzo edificio, il Palazzo del Cardinale, alle spalle di Tribunale e Calendimaggio.

Il sogno degli archeologi sa­rebbe creare un collegamento sotterraneo per permetterne la fruizione integrale ma vi si op­pongono esigenze di sicurez­za. Per gli ospiti moderni, dun­que, niente “giro della casa” di cortesia, con buona pace della gran signora che vi abitò.