MARCHI & BREVETTI

30 giugno 2013

Tutela della concorrenza e rating: segni distintivi e reputazione commerciale

di Giuseppe Caforio

Il rating, secondo la definizione data da S&P, è “un opinione sul merito di credito complessivo del debitore (issuer rating) oppure sul merito di credito del debitore con riferimento a una particolare obbligazione finanziaria (issue rating), valutato sulla base di una serie di rischi di fattori rilevanti”. Secondo la definizione data da Moody‘ s il rating è “un opinione sulla capacità futura di un emittente di adempiere alle scadenze prestabilite al pagamento del capitale e degli interessi relativi al pagamento di una specifica obbligazione”. Lo scopo del Rating è quello di aumentare l‘efficienza del mercato dei capitali fornendo agli operatori opinioni affidabili, tempestive, corrette e indipendenti sulla probabilità che un emittente sarà in grado di ripagare sia il capitale che gli interessi dello strumento al quale è stato attribuito un rating. Per gli emittenti che vogliono accedere ai mercati finanziari e ottenere capitali a un costo più basso rispetto a quello che sosterrebbero ricorrendo al finanziamento bancario, è cruciale richiedere il rating. Il rating è in grado di sintetizzare una vasta quantità di informazioni sia qualitative che quantitative sul profilo di rischio in un semplice valore alfanumerico. A tale valore è associata una determinata probabilità di default. La semplicità di questo ranking permette anche agli investitori meno esperti di comparare il rischio di credito relativo di una vasta gamma di strumenti di debito. Infatti è facile capire che uno strumento di debito che abbia un rating A ha un profilo di rischi più basso di uno strumento che ha un rating B. Il limite del rating è di non essere in grado di fornire una misura assoluta del rischio di default (solo relativa). In generale, più elevato è il rating, più bassa è la probabilità di default e, di conseguenza più basso è il tasso di interesse che può essere applicato. La scala dei rating può essere suddivisa in due gruppi: le lettere relative ai rating classificati come speculative grade (zona scura) e le lettere relative ai rating classificati come investment grade. Per l‘emittente è importante ottenere un rating che ricada nella seconda categoria, poiché la regolamentazione a fronte di un rating che si colloca nello speculative grade, potrebbe vietarne l’acquisto da parte di alcuni investitori oppure richiedere per essi l’accantonamento di quote di capitale in misura superiore al livello minimo.

Meccanismo di reputazione

Il rating è un’opinione sulla solvibilità generale del debitore, ovvero sulla capacità di ripagare alla scadenza prestabilita il capitale e gli interessi. Il rating può essere riferito anche a un solo strumento di debito piuttosto che alla valutazione della solvibilità complessiva del debitore. L’attribuzione del rating è basata sull’analisi di un sistema complesso di variabili sia quantitative, sia qualitative, quali-quantitative. Tra esse si annoverano i dati di bilancio, le qualità manageriali, la posizione di mercato all’interno del settore di riferimento dell’impresa. Attraverso l’analisi dei dati, si cerca di prevedere quelle che saranno le prospettive future dell’impresa che influenzano la sua solvibilità, tenendo conto della congiuntura economica, delle condizioni economiche e di eventuali fattori di stress. L’analisi è basata non solo su informazioni pubbliche, ma anche su informazioni private che l’impresa mette, all’occorrenza, a disposizione dell’agenzia. La raccolta di informazioni rappresenta un costo per le agenzie di rating; d’altro canto esse attraverso l’investimento nella raccolta di informazioni accumulano capitale di reputazione. Hickman (1958) mostra che i rating emessi nella prima metà del ventesimo secolo negli Stati Uniti riflettono in maniera corretta la probabilità che un emittente non sarà in grado di ripagare il suo debito. Tuttavia, vi è il rischio che, una volta consolidato il capitale di reputazione, le agenzie siano tentate di ridurre gli investimenti nella raccolta e nell’analisi delle informazioni - cioè di ridurre i propri costi - al di sotto del livello ottimale corrispondente a una determinata reputazione. D’altro canto, però, ogniqualvolta le agenzie emettono un rating mettono in gioco la propria reputazione, la quale richiede tempo per essere costruita e la prospettiva della perdita di tale reputazione potrebbe essere un disincentivo sufficiente al sottoinvestimento. Gli investitori percepiscono il rating emesso da Moody’s e S&P come il più affidabile e accurato; Setty e Dodd (2003) sostengono che un incremento della competizione tra agenzie potrebbe essere tutt’altro che benefico e fonte di noises (disturbo), richiedendo maggior tempo agli operatori di mercato per «riconciliare » i rating provenienti dalle differenti agenzie. Non va inoltre dimenticato che la percezione di maggiore affidabilità di Moody’s e S&P potrebbe essere spiegata dalla teoria della finanza comportamentale (Tversky e Kahneman 1981). Infatti, da una prospettiva comportamentale, gli emittenti e gli investitori potrebbero essere portati a ritenere che le due maggiori agenzie siano le più affidabili perché sono le più grandi ovvero perché sono le più conosciute.

 Il regolamento del Parlamento europeo e del consiglio n. 1060/2009

 Il 16 settembre 2009 è entrato in vigore il Regolamento del Parlamento europeo e del consiglio n. 1060/2009 relativo alle agenzie di rating, disciplina sia l’attività sia i soggetti, ponendo attenzione sia al tema dell’ indipendenza che a quello della prevenzione dei conflitti di interesse; inoltre riguarda integrità, trasparenza, responsabilità governance e affidabilità. Il cardine della disciplina è l’obbligo di registrazione al quale sono sottoposti tutti coloro che intendono svolgere in modo professionale l’attività di emissione di rating sul credito. Nella regolamentazione sulla prevenzione dei conflitti d’interesse si prevede l’obbligo di avere almeno un terzo di amministratori indipendenti (con il compito di controllare lo sviluppo delle politiche di rating, i controlli interni e le procedure per la gestione dei conflitti d’interesse); si prevede inoltre il divieto di fornire servizi di consulenza o raccomandazioni alle entità oggetto di rating; il divieto per i dipendenti di acquistare strumenti finanziari emessi o garantiti da entità oggetto di rating; il divieto di anticipare il probabile esito futuro del rating se non all’entità valutata; l’adozione di misure di trasparenza sui conflitti d’interesse, quali la pubblicazione dei nomi delle entità valutate da cui derivi più del 5% del fatturato annuo; l’obbligo di comunicazione al pubblico di alcuni elementi dei metodi e dei modelli di valutazione adottati; l’obbligo di riesame periodico (almeno una volta all’anno) dei giudizi emessi e delle metodologie utilizzate; il rispetto dei criteri di correttezza nella presentazione dei giudizi (fonti delle informazioni e metodologie impiegate); la redazione di un analisi di sensitività dei rating emessi; la comunicazione del giudizio formulato, almeno dodici ore prima della pubblicazione, all’emittente, in modo che questi possa indicare eventuali errori materiali; e l’informazione periodica al pubblico. È inoltre previsto che le autorità di vigilanza competenti di ciascuno stato membro siano dotate di ampi poteri di vigilanza, tra cui quello di accedere a qualsiasi documento, di richiedere informazioni, di eseguire ispezioni anche senza preavviso e di richiedere registrazioni telefoniche. In sintesi le istituzioni comunitarie hanno adeguatamente risposto all’esigenza da un lato di completezza sotto il profilo della disciplina normativa e dall’altro sotto il profilo della tutela dell’investitore, perché gli obblighi previsti nel regolamento creano il legittimo affidamento sulla correttezza dei rating e in generale sull’operato delle agenzie registrate attribuendo incisivi poteri agli organi di vigilanza.

Il regolamento 513 del 2011

 Le innovazioni del reg. n. 513/2011 hanno determinato una vera e propria rivoluzione in materia di registrazione e vigilanza delle agenzie di rating del credito, dal momento che il nuovo corpus regolativo ne individua come unico soggetto responsabile l’Autorità europea di vigilanza degli strumenti finanziari e dei mercati (AESFEM), recentemente costituita nel quadro di un più ampio riassetto della struttura della vigilanza del settore finanziario nell’Unione. Alla luce della semplice considerazione che i rating del credito non vengono utilizzati in un singolo stato membro, bensì nell’intera Unione Europea, il nuovo reg. segna così l’abbandono della originaria struttura basata sulla distinzione tra autorità competente dello stato membro d’origine ed altre autorità competenti nonché sull’uso di un coordinamento di tipo collegiale, mentre alle autorità competenti degli stati membri viene lasciata la possibilità di assistere e cooperare con l’AESFEM soprattutto nello svolgimento di indagini specifiche e di ispezioni in loco su delega dell’autorità europea. Restano di competenza degli stati membri la definizione e l’attuazione di norme sanzionatorie nel caso di violazioni da parte degli istituti ed altre entità finanziarie dell’obbligo di fare uso, a fini regolamentari, esclusivamente dei rating emessi dalle agenzie registrate in conformità del reg. n. 1060/2009. Tornando ai contenuti salienti del reg. n. 1060/2009, che nella sostanza non sono intaccati dalla normativa sopravvenuta, la garanzia di un’adeguata gestione dei conflitti d’interesse, di un’adeguata vigilanza delle metodologie valutative e dei giudizi emessi e l’accrescimento del livello di trasparenza nei confronti del mercato ne costituiscono i tre pilastri: ciò allo scopo immediato di incrementare la qualità del rating e, di conseguenza, di migliorare l’efficienza del mercato, per assicurare, in ultima istanza, un più elevato livello di tutela degli investitori. Ne è risultata una disciplina che, tra gli altri, tocca gli aspetti relativi al monitoraggio ed alla qualità del rating; alla governance interna; alla prevenzione dei conflitti d’interesse. Spigolando tra le norme del regolamento che più immediatamente si distinguono nel segno della tutela degli investitori, balzano agli occhi, in primo luogo, le previsioni che impongono standard minimi per la presentazione e la comunicazione dei voti di rating (volti a rafforzarne la trasparenza, soprattutto in presenza di prodotti della finanza strutturata) nonché una serie di obblighi di informazione di carattere generale da aggiornare in modo continuo e periodico. In tema di presentazione e comunicazione dei rating: viene imposto alle agenzie di comunicare tempestivamente qualsiasi rating e qualsiasi decisione di abbandono di un rating su base non selettiva; è previsto che le categorie di rating riguardanti prodotti finanziari strutturati, proprio in virtù del maggior grado di rischio che li caratterizza, siano distinguibili, mediante il ricorso ad un simbolo aggiuntivo, da quelle utilizzate per i prodotti finanziari per così dire tradizionali; nel caso di rating unsolicited (nota), non solo le agenzie dovranno rendere note le loro politiche in merito, dichiarandole espressamente nel rating emesso e comunicando se il soggetto valutato o terzi ad esso collegati abbiano o non abbiano partecipato al procedimento di valutazione e se si siano avvalse di documenti interni all’una od agli altri, ma dovranno anche chiaramente identificarli come tali. Oggetto di informativa al pubblico devono essere anche metodologie, modelli ed ipotesi principali di rating (ad esempio di tipo matematico) utilizzati. Ai fini di incrementare la qualità del rating, il regolamento si preoccupa, infatti, che le agenzie si servano di tutte le misure necessarie per assicurare che le informazioni poste a base dell’emissione di un voto di rating siano di qualità sufficiente e provengano da una fonte affidabile. Così come rigorose, sistematiche, continuative e soggette a convalida alla luce dell’esperienza storica dovranno essere le metodologie di rating applicate. Tutto ciò affinché i giudizi di rating emessi siano il frutto di un’analisi attenta ed accurata di tutte le informazioni disponibili. Sempre allo scopo di evitare il conflitto di interessi si rivela poi cruciale la previsione che impone alle agenzie di concentrare la propria attività sull’emissione del rating, vietando loro di svolgere ogni altra attività di consulenza diversa dai servizi ausiliari alla prestazione caratteristica di rating, fonte certamente di ulteriori lucrosi proventi, ma proprio per questo in grado di accentuare il conflitto di interessi già insito nel modello issuer paid.

La normativa italiana

Nel nostro paese non esiste una disciplina specifica in materia di rating; si registrano solo interventi sporadici e frammentari. Alla lacuna sopperisce la regolamentazione comunitaria di diretta applicazione, che costituisce una importante normativa di cornice cui si incastonano le varie disposizioni che variamente richiamano il settore del rating. Il rating è un prodotto informativo necessario, (a determinate condizioni) per accedere al mercato degli strumenti finanziari o, quanto meno, ad una sua parte rilevante. La libertà di offrire prodotti finanziari risulta talvolta subordinata da norme di diritto pubblico, per lo più dettate da esigenze di tutela del credito o dei piccoli risparmiatori, alla previa valutazione, da parte di soggetti terzi, del rischio di credito relativo al prodotto offerto. Il riferimento, in particolare, è alla legge 30 aprile 1999, n. 130 , contenente “disposizioni sulla cartolarizzazione dei crediti” che obbliga, all’art. 2 comma 4, qualora i titoli originati da operazioni di cartolarizzazione siano offerti ad investitori non professionali, a sottoporre l’intera operazione alla “valutazione del merito di credito da parte di operatori terzi”. Il riferimento, qui implicito, al rating, è reso palese dal successivo comma 5 che rinvia a un apposito regolamento CONSOB da pubblicarsi in Gazzetta Ufficiale che stabilisca “i requisiti di professionalità e i criteri per assicurare l’indipendenza degli operatori che svolgono la valutazione del merito di credito e l’informazione sugli eventuali rapporti esistenti tra questi e i soggetti che a vario titolo partecipano all’operazione, anche qualora la valutazione non sia obbligatoria”. Le società di rating e i loro giudizi svolgono un ruolo decisivo nel calcolo del patrimonio di vigilanza bancario. Per quanto riguarda un ulteriore frammento legislativo, occorre richiamare la normativa interna di recepimento della normativa comunitaria in materia di “abusi di mercato”; in particolare l’art 114, comma8, del tuf e, in sua attuazione , l’art 69.decies del regolamento Consob 11971 sugli emittenti. In un primo momento la disposizione richiamava le agenzie di rating, ma successivamente il riferimento venne eliminato.

Rating e concorrenza sleale

 Se i soggetti che valutano professionalmente prodotti o produttori, svolgono la propria attività in modo non trasparente, quando non addirittura in mala fede, possono essere chiamati a rispondere del loro operato sia dall’impresa valutata negativamente, sia dal concorrente di chi ha avuto una immeritata valutazione positiva. La pubblicazione di valutazioni negative può determinare un danno per il soggetto che ne viene colpito, dalla quale può derivare una forma di responsabilità extracontrattuale a carico dell’autore: l’applicabilità dell’art. 2043 C.c. a queste ipotesi è astrattamente configurabile, ma probabilmente insufficiente a garantire una effettiva tutela. Di fronte a valutazioni che si presentano come informazioni economiche disinteressate, legittimate pure dall’art. 21 Cost., l’unico parametro di giudizio dovrebbe essere rappresentato dal rispetto di criteri di obiettività ed esattezza contenuti nel canone di diligenza professionale proprio dell’attività: in questo modo, le uniche condotte censurabili potrebbero essere quelle che configurano una violazione colposa o dolosa di tali canoni di rigorosità, la cui precisa individuazione sarebbe in ogni caso rimessa alla valutazione discrezionale del giudice, al quale spetterebbe quindi il non semplice compito di tracciare il confine tra libertà di manifestazione del pensiero e tutela dell’attività di impresa. Invocare la responsabilità aquiliana di chi abbia diffuso una valutazione scorretta può rivelarsi estremamente difficile, dal momento che 1’attore dovrebbe dimostrare che 1’autore del giudizio ha violato colposamente o dolosamente i suoi doveri di obiettività; gli elementi di prova, cioè i dati sui quali la valutazione si fonda e i criteri sulla base dei quali questa è stata elaborata sono però nella maggior parte dei casi nella disponibilità esclusiva dell’autore dell’informazione. Per il soggetto valutato, quindi, sarebbe estremamente complicato dimostrare che la valutazione è stata condotta in modo non professionale. Sulla base di queste considerazioni, si potrebbe invece provare a valutare la legittimità della condotta del professionista che diffonde informazioni commerciali indirette dal punto di vista della responsabilità per concorrenza sleale, istituto che, sul piano applicativo, offre al soggetto passivo una tutela più intensa: l’ultimo comma dell’art. 2600 c.c., infatti, stabilisce che, una volta accertato l’atto di concorrenza sleale, la colpa si presume. Riuscendo a dimostrare che la diffusione di un’informazione commerciale indiretta scorretta costituisce un atto di concorrenza sleale, spetterà al suo autore, se vorrà evitare una pronuncia inibitoria o risarcitoria a suo carico, dimostrare di non aver violato, nemmeno colposamente, i doveri di obiettività ed esattezza che la diligenza professionale della sua attività gli impongono. Nei i giudizi delle agenzie di rating dovrebbero essere elaborati secondo criteri di obiettività, indipendenza e trasparenza. La violazione di queste regole può senz’altro determinare un notevole danno per l’emittente che riceve una valutazione negativa, così come per il concorrente di chi invece è stato  giudicato in maniera esageratamente ottimistica. Se l’emittente danneggiato potesse invocare unicamente la responsabilità aquiliana dell’agenzia di rating, dovrebbe dimostrare che questa ha violato con colpa o con dolo i propri doveri di professionalità nell’elaborazione del giudizio: tuttavia, dal momento che i criteri di giudizio e i dati su cui si basano non sono tutti accessibili al pubblico e sono anche in buona parte rimessi alla sensibilità soggettiva degli analisti, sarebbe assai complicato dimostrare che il rating è stato elaborato in modo non professionale. Se il danneggiato potesse invece sostenere che il giudizio negativo che ha ricevuto configuri un’ipotesi di denigrazione ai sensi dell’art. 2598, n. 2, c.c., sarebbe invece onere dell’agenzia di rating dimostrare che la valutazione è stata elaborata nel pieno rispetto dei propri doveri di professionalità, ovvero che, se una violazione c’è stata, sia avvenuta in modo del tutto incolpevole. Considerazioni simili potrebbero svolgersi, fatte le dovute proporzioni, anche per le altre tipologie di informazione commerciale indiretta cui si è fatto finora cenno. L’art. 2598 c.c., pur avendo di mira principalmente la tutela della libertà d’impresa da condotte scorrette dei concorrenti, può realizzare in via mediata anche più generali interessi del mercato. Si pensi al divieto di diffondere notizie o apprezzamenti screditanti per il concorrente: se da un lato la norma tutela direttamente l’attività di quest’ultimo, dall’altro essa si pone indirettamente come ulteriore garanzia di trasparenza del mercato, mirando ad evitare che il consumatore sia spinto dall’informazione denigratoria ad orientarsi verso altri prodotti o servizi.

Applicazione dell’art 2598 e la tutela del buon nome: il marchio

 L’agenzia di rating e gli imprenditori operanti nel mercato cui le informazioni prodotte si riferiscono non hanno un rapporto concorrenziale. Questo non deve imporsi d per sé come ostacolo  alla applicazione della disciplina della concorrenza sleale, quando tale disciplina sia l’unico strumento giuridico utilizzabile per realizzare i valori contenuti nella costituzione economica. All’impresa che abbia per oggetto la produzione e diffusione professionale di informazioni su prodotti o su imprese altrui, sebbene non tecnicamente sue concorrenti, la correttezza professionale potrebbe imporre di evitare comportamenti idonei ad arrecare un danno concorrenziale alle imprese operanti nel mercato cui si riferiscono le informazioni prodotte. In quanto le agenzie di rating possono essere tenute al rispetto di specifici doveri deontologici, anche al di là di quelli espressamente inclusi nel codice di condotta che la IOSCO propone alle agenzie di inserire integralmente nella propria autoregolamentazione interna. Il codice IOSCO può comunque rappresentare una valida base per identificare più precisamente il contenuto concreto della correttezza professionale propria dell’attività informativa indiretta sul rischio di credito degli emittenti e dei prodotti finanziari: esso presenta tre fondamentali aree di intervento, e cioè la qualità e l’integrità del processo di rating, l’indipendenza dell’agenzia e la gestione dei conflitti di interesse, la sua responsabilità nei confronti degli investitori e degli emittenti riguardo le modalità e i tempi di diffusione del giudizio. La qualità del processo di rating impone alle agenzie di agire secondo procedure predeterminate, vincolanti per gli analisti anche nelle fasi di monitoring e aggiornamento della valutazione, e di avvalersi unicamente di dipendenti di elevata professionalità e integrità. Il codice prescrive inoltre alle agenzie di agire in modo obiettivo e indipendente, in particolare non esimendosi dal diffondere giudizi che possano risultare in contrasto con gli interessi dell’agenzia stessa, e a rendere per quanto possibile noti al pubblico i conflitti di interesse, reali o potenziali, che possano influire sulle analisi o sulle valutazioni. Le agenzie che adotteranno il codice saranno inoltre responsabili verso gli investitori e i soggetti valutati del costante aggiornamento delle informazioni, essendo obbligate a diffondere le proprie valutazioni “appena possibile” e rendendo trasparenti le procedure seguite nella concessione e nella modifica dei ratings. Il codice IOSCO, rappresenta al momento la fonte normativa più incisiva per l’attività di rating, disciplinandone tutti gli aspetti ritenuti più problematici. D’altra parte, bisogna comunque sottolineare la natura autodisciplinare delle norme esaminate, le quali, pur provenendo da un soggetto che comprende enti dotati di poteri coercitivi ciascuno nel proprio ordinamento, possono trovare solo uno spontaneo adempimento da parte delle agenzie, attraverso l’inserimento dei principi IOSCO in un codice interno di condotta professionale. Sembra tuttavia possibile ritenere che le norme elaborate dall’organizzazione internazionale delle securities commissions possano integrare in via interpretativa il canone della correttezza professionale che l’art. 2598 n. 3 c.c. assume come criterio di valutazione della lealtà delle condotte concorrenziali. L’applicazione della disciplina della concorrenza sleale necessita quanto meno di individuare un soggetto passivo colpito dalla condotta sleale, in quanto questa sia idonea a danneggiarlo. L’attività consistente nel valutare il rischio di credito relativo ad un emittente di strumenti finanziari ovvero a singole emissioni, se svolta in contrasto con la speciale correttezza professionale del settore, potrebbe effettivamente presentare notevoli potenzialità lesive, e non solo per l’emittente oggetto di valutazione, ma anche per i suoi concorrenti. Con la diffusione al pubblico del giudizio le agenzie di rating realizzano un’attività informativa ampiamente idonea ad influenzare il giudizio degli investitori, e quindi ad indirizzarli verso (o a sviarli da) determinati strumenti finanziari; e quando il giudizio diffuso sia stato prodotto in violazione delle norme di correttezza professionale, l’agenzia potrebbe essere ritenuta responsabile ex art. 2598 n. 3 c.c. nei confronti dell’impresa-emittente danneggiata. Il danno concorrenziale potrebbe essere lamentato tanto dall’emittente valutato, in quanto colpito da un giudizio negativo, formulato in modo professionalmente scorretto, quanto dai suoi concorrenti, che potrebbero subire uno sviamento di clientela, quando questa sia indotta a spostarsi verso altri prodotti finanziari che abbiano indebitamente ricevuto ratings più ottimistici. Si tratta, in definitiva, di un’applicazione concreta di quanto già sostenuto in generale per ogni tipo di informazione commerciale indiretta, alle quali è sembrato opportuno riferire la disciplina della repressione della concorrenza sleale anche a prescindere dall’effettiva esistenza di un rapporto concorrenziale. Peraltro, anche in considerazione della ritenuta elasticità della clausola generale, il rapporto di concorrenza potrebbe non essere necessario per l’applicazione del n. 3 dell’art. 2598 c.c., militando a favore di questo assunto anche l’argomento letterale dell’assenza, nella norma in questione, di un esplicito riferimento ad un concorrente quale soggetto passivo della condotta. Si può inoltre notare come anche altre fattispecie contemplate dall’art. 2598 c.c., qualora siano ritenute applicabili anche al di là dei presupposti soggettivi ritenuti indefettibili dalla dottrina e dalla giurisprudenza maggioritarie, possano venire in rilievo per l’individuazione della disciplina giuridica dell’attività di marketing. Anche gli atti di concorrenza sleale per denigrazione e per appropriazione di pregi sono materialmente realizzabili attraverso la diffusione di informazioni al pubblico, e non presuppongono, quanto meno su un piano pratico, mentre si dibatte ancora sul piano giuridico, l’esercizio da parte del soggetto attivo di un’attività in concorrenza. Un rating pessimistico, in quanto espressione di una valutazione negativa delle prospettive del rischio di credito relativo ad un emittente, può risultare decisamente idoneo a determinare il suo discredito nell’opinione del pubblico degli investitori, che sono solitamente consci delle capacità professionali delle agenzie, riconoscendo loro una notevole influenza nei propri processi decisionali di investimento o disinvestimento. In questo caso, se si prescinde dalla necessità di un rapporto concorrenziale tra l’impresa di informazione autrice del rating e l’emittente screditato, questa informativa finanziaria derivata può direttamente produrre un danno (concorrenziale) consistente nello sviamento degli investitori in misura maggiore di quanto siano in grado di fare le stesse i favore informazioni quando siano prodotte o diffuse invece da un concorrente. D’altra parte, il rating, quando ottimistico, potrebbe essere considerato, in quanto espressione di un’attendibile valutazione della solvibilità. un pregio dell’azienda o, più precisamente, di tutte quelle aziende che, presentando un’omologa solidità finanziaria, siano state collocate dalle agenzie sullo stesso gradino. Tale omogeneità di valutazioni non è priva di effetti per il rendimento dei titoli: è stato statisticamente osservato come uno stesso livello della scala di rating, i diversi strumenti finanziari offrano rendimenti simili; ne consegue che, quando un prodotto finanziario subisce un downgrade, per restare competitivo con gli altri prodotti collocati nel gradino più basso, dovrà necessariamente offrire un rendimento maggiore. Pertanto, anche nel caso in cui l’agenzia conceda un rating eccessivamente ottimistico, un’interpretazione estensiva dei presupposti soggettivi dell’art. 2598 c.c. n. 2, ultima parte, potrebbe legittimare gli altri emittenti che siano stati collocati sul medesimo gradino ad invocare la responsabilità dell’agenzia di rating. Per essi il danno derivante dalla concessione a concorrenti di un rating in violazione della correttezza professionale specificamente richiesta per questa attività, può ben realizzarsi nello sviamento degli investimenti verso gli emittenti cui il rischio di credito sia stato sottostimato, ovvero, in alternativa, nella necessità di offrire maggiori rendimenti per competere con questi ultimi. In conclusione, un rating pessimistico concesso in violazione delle procedure e dell’etica richiesta dall’attività, non solo è idoneo a causare quel discredito assunto come eventum damni dall’art. 2598 c.c. n. 2, ma può anche, a determinate condizioni, precludere all’emittente colpito l’accesso al credito bancario indispensabile per lo sviluppo dell’impresa e dunque per competere con i propri concorrenti. Inoltre, la possibilità che le agenzie hanno di non concedere affatto il rating, rapportata alla configurazione decisamente oligopolistica di questo specifico mercato di prodotti informativi, che consente tra l’altro di ipotizzare l’effettiva impossibilità per un’impresa di ottenere un rating indispensabile per accedere al credito delle banche e ai rapporti con i terzi. Infine un filone parallelo, ma di identico impatto è quello relativo agli Enti Pubblici, anch’essi sottoposti al giudizio del rating. In tali casi non è possibile ipotizzare forme di concorrenza, risultando questa disciplina applicabile esclusivamente alle imprese e agli imprenditori, ma certamente il “buon nome” di un ente è fortemente influenzato nel bene e in male, a secondo il giudizio, dal rating.