MARCHI & BREVETTI

31 marzo 2011

La disciplina della concorrenza e tutela dello sviluppo delle imprese

di Giuseppe Caforio

 

La tutela del mercato, libero e corretto è aspetto fondamentale dello sviluppo socio-economico e quindi delle imprese che vi operano.

In questa ottica, prima la giurisprudenza, con le sue sentenze e successivamente il legislatore con vari interventi hanno cercato di delineare un sistema di tutela della concorrenza, che se anche non omogeneo, consente di porre in essere tutta una serie di strumenti giuridici utile a tutelare il mercato.

Si passeranno in rassegna le principali fattispecie che sono state elaborate e che trovano tutela nel nostro Ordinamento giuridico.

La disciplina della concorrenza nasce e si sviluppa per la prima volta in Canada nel 1889 e poi in USA nel 1890 sottoforma di legislazione antitrust, proprio con la finalità di prevenire e reprimere quei comportamenti imprenditoriali che attengono al principio fondamentale di un’economia di mercato, la sua competitività. Le norme volte a tutelare il libero gioco della concorrenza, altro non è che un sistema articolato di comandi e divieti diretti agli artefici della produzione per impedire che ciascuno di essi ponga in essere condotte collusive aventi per effetto il restringimento della concorrenza tant’è da impedire l’ingresso nel mercato di nuovi concorrenti. In  tale prospettiva, l’interesse primario tutelato dalla normativa è  essenzialmente di natura pubblica perché, la libera concorrenza riguarda il benessere della collettività nel suo complesso. In Italia, il cammino della concorrenza come bene di rango pubblico è stato intrapreso solo a partire dall’avvento dell’ordinamento repubblicano, in coincidenza con l’emanazione  della carta costituzionale entrata in vigore il primo gennaio 1948 e si è concluso, almeno formalmente con l’emanazione della legge n. 287 del 1990 (norme per la tutela della concorrenza e del mercato).

Nel nostro ordinamento, la disciplina della concorrenza nasce essenzialmente come creazione giurisprudenziale nella seconda metà dell’Ottocento, al fine di tutelare gli interessi del ceto imprenditoriale dominante e i profitti derivanti dall’attività svolta, in quanto iniziò, un intenso processo di industrializzazione dell’economia. Le prime norme sulla concorrenza vennero recepite dall’ordinamento italiano con la sottoscrizione della Convenzione di Parigi per la tutela della proprietà industriale nel 1883 e dopo la revisione dell’Aja del 1925, dispose all’articolo 10 bis rubricato concorrenza sleale:

            “costituisce un atto di concorrenza sleale ogni atto di concorrenza contrario agli

              usi onesti in materia industriale o commerciale.

             Dovranno particolarmente essere vietati:

            1.tutti i fatti di natura tale da ingenerare confusione, con lo stabilimento, i prodotti                           o l’attività industriale o commerciale di un concorrente;

            2.le asserzioni false, nell’esercizio del commercio,tali da discreditare lo stabilimento,

            i prodotti o l’attività industriale o commerciale di un concorrente;

           3.le indicazioni o asserzioni il cui uso, nell’esercizio del commercio, possa trarre in errore

           il pubblico sulla natura, il modo di fabbricazione, le caratteristiche, l’attitudine all’uso

           o alla qualità delle merci”.

Questa norma è stata recepita nell’ordinamento italiano, tramite l’ordine di esecuzione emanato con r.d. 10 gennaio 1926 n. 169,convertito in legge 29 dicembre 1927 n.2701. Essa, riveduta a Stoccolma il 14 luglio 1967 è formalmente tutt’ora in vigore, anche se si discute sul suo residuo ambito di applicazione visto che, con l’emanazione del codice civile del 1942 si fa riferimento quasi esclusivamente all’articolo 2598 c.c. che recita:

         “ferme le disposizioni che concernono la tutela dei segni distintivi e dei diritti di

            brevetto, compie atti di concorrenza sleale chi:

           -usa nomi o segni distintivi idonei a produrre confusione con i nomi o con i segni

            distintivi legittimamente usati da altri, o imita servilmente i prodotti di un

            concorrente, o compie con qualsiasi altro mezzo atti idonei a creare confusione

            con i prodotti e con l’attività di un concorrente;

           -diffonde notizie e apprezzamenti sui prodotti e sull’attività di un concorrente,

            idonei a determinarne il discredito, o si appropria di pregi dei prodotti o

            dell’impresa di un concorrente;

          -si vale direttamente o indirettamente di ogni altro mezzo non conforme a

           principi della concorrenza professionale e idoneo a danneggiare l’altrui azienda”                   

 

Le fattispecie legalmente tipiche di concorrenza sleale:

  a)gli atti di confusione: il primo comma dell’articolo 2598 c.c. protegge la funzione distintiva dell’attività d’impresa, sanzionando l’attività del concorrente che adotta                                                                                                                                                                                                  nomi o segni distintivi confondibili con quelli legittimamente usati da altri, con il risultato di rendere il proprio prodotto confondibile con quello imitato. La norma in esame, risulta molto utile per sanzionare quei comportamenti idonei a generare confusione tra segni distintivi atipici1, quali ad esempio la ditta irregolare(non contiene né il nome né la sigla dell’imprenditore), il marchio di fatto e cioè il marchio non registrato oppure i nomi di dominio su internet2. Presupposto per agire ex articolo 2598 c.c. n.1  è la confondibilità che come definita dalla Suprema Corte si configura come la riproduzione delle caratteristiche esteriori dotate di efficacia individualizzante e cioè idonee a ricollegare il prodotto ad una determinata impresa.

 Segue:b)denigrazione e appropriazione di pregi: il secondo comma dall’articolo 2598 c.c. sanziona la diffusione di notizie e apprezzamenti screditanti l’imprenditore concorrente. La diffusione di notizie e apprezzamenti negativi non deve  necessariamente consistere nella comunicazione di tali notizie ad una vasta cerchia di persone ma basta che, la comunicazione sia diffusa ad una sola persona. Per quanto riguarda la fattispecie dell’appropriazione di pregi dei prodotti o dell’impresa di un concorrente, è necessario ricordare che per pregio si deve intendere qualsiasi caratteristica dell’impresa o dei prodotti che sia considerata una qualità positiva dal consumatore, il quale orienta quindi le proprie preferenze in ragione dell’esistenza di esso.

 

Le fattispecie di origine giurisprudenziale ex articolo 2598 n. 3 c.c.:

a)abuso di segreti e spionaggio industriale: L’articolo 98 c.p.i. ha tipicizzato una fattispecie di concorrenza sleale di origine giurisprudenziale, consistente nella rivelazione a terzi o acquisizione o utilizzazione da parte di terzi di informazioni aziendali segrete; la norma chiarisce che sono segrete le informazioni

            “che non siano nel loro insieme, […..], generalmente note o facilmente accessibili

             agli esperti ed agli operatori del settore”

Tali informazioni devono poi avere  valore economico in quanto segrete ed essere sottoposte, da parte delle persone al cui legittimo controllo sono soggette, a misure da ritenersi ragionevolmente adeguate a mantenerle segrete. Il problema appare, collegato a quello della tutela del know how, vale a dire delle conoscenze che nell’ambito della tecnica industriale sono richieste per produrre un bene, per attuare un processo produttivo o per il corretto impiego di una tecnologia. Si tratta in via generale e definitiva quindi, di informazioni tecniche non brevettabili che, ove assumono il carattere della novità e della segretezza assumono rilievo come autonomo elemento patrimoniale suscettibile di utilizzazione economica da parte del possessore. All’articolo 98 c.p.i. può essere mossa una critica, nella misura in cui privilegia, ai fini della qualificazione di slealtà della condotta concorrenziale, la destinazione soggettiva dell’informazione o del dato da parte dell’imprenditore, piuttosto che la rilevanza oggettiva degli stessi; ciò, si pone in contrasto col principio di libertà di concorrenza.

 

Segue :b) violazione di esclusiva: la violazione di esclusiva contenuta negli accordi di distribuzione commerciale ad opera di un terzo estraneo all’accordo è stata ritenuta, da gran parte della giurisprudenza, un comportamento lecito, atteso che un divieto di violazione dell’altrui esclusiva renderebbe inaccettabili le posizioni conquistate sul mercato da parte di un concorrente, creando posizioni di abuso monopolistico con gravi conseguenze per la stessa libertà di concorrenza. La fattispecie, consiste nella vendita di prodotti contraddistinti dallo stesso marchio nella zona per la quale altro soggetto ha contrattualmente acquisito, dalla casa produttrice, un diritto di esclusiva commerciale. In realtà, visto l’attuale sistema normativo, italiano e comunitario, è oggi inconfigurabile una fattispecie di concorrenza sleale per violazione di esclusiva. Infatti, il titolare di un diritto di proprietà industriale è soggetto al principio di esaurimento delle facoltà esclusive da esso derivanti, ai sensi dell’articolo 5 c.p.i..

 

Segue :c)concorrenza parassitaria: la concorrenza parassitaria consiste nell’imitazione sistematica, da parte di un imprenditore, delle iniziative e delle idee di un concorrente. Si deve a R. Franceschelli il primo studio sul tema il quale affermò che il parassitismo economico è caratterizzato, dal copiare tutto quello che fa il concorrente, appropriandosi di ogni sua idea e seguendolo in tutte le sue realizzazioni. Sistematicità e non occasionalità dell’imitazione sarebbero dunque i tratti peculiari della concorrenza sleale parassitaria. Secondo la pronuncia della Cassazione n. 13423 del 20 luglio 2004 “ nella concorrenza parassitaria, l’imitazione può considerarsi illecita solo se effettuata a breve distanza di tempo da ogni singola iniziativa del concorrente o dall’ultima e più significativa di esse, là dove per breve deve intendersi quell’arco di tempo per tutta la durata del quale l’ideatore della nuova iniziativa ha ragione di attendersi utilità particolari dal lancio della novità, ovvero fino a quando essa è considerata tale dal pubblico dei clienti e si impone, quindi, alla loro attenzione nella scelta del prodotto”. La Corte Suprema, aderì all’indirizzo dottrinale espresso da R. Franceschelli, affermando che “ha diritto di ingresso nel nostro ordinamento, sotto il n.3 dell’articolo 2598 c.c., la concorrenza parassitaria, laddove l’attività commerciale d’imitazione si traduca in un cammino continuo e sistematico essenziale e costante sulle orme altrui, perché l’imitazione di tutto o quasi tutto quello che fa il concorrente, l’adozione più o meno immediata di ogni sua iniziativa, se pure non realizzi una confusione di attività e di prodotti, è contrario alle regole che presiedono all’ordinario svolgimento della concorrenza. L’imprenditore commerciale che si pone sulla scia del concorrente, in modo sistematico e continuativo, viene a trarre profitto dagli studi, dalle spese di preparazione e penetranti altrui e, utilizzando le realizzazione già sperimentate, evita il rischio dell’insuccesso. Tale comportamento oltre a costituire un esoso sfruttamento dell’altrui iniziativa ed organizzazione contrario all’ampio concetto di concorrenza, esigendo gli usi onesti che nella competizione per la conquista dei mercati si prevalga sui concorrenti avvalendosi dei mezzi di ricerca e finanziari propri, è idoneo a danneggiare l’altrui azienda, a causa dei minori costi di produzione ai quali deve sottostare l’imitatore, che gli consentono di praticare, a parità di prodotto, prezzi inferiori a quelli del concorrente e di avviare verso la propria impresa una quantità di affari e di clienti che avrebbero potuto invece avviarsi verso l’imprenditore imitato”.

 

Segue :d)pubblicità menzognera: la pubblicità menzognera non ricade né tra le ipotesi tipicizzate di pubblicità denigratoria, né in quelle di pubblicità confusoria. Il tema della pubblicità menzognera riguarda tradizionalmente l’individuazione di una forma di pubblicità scorretta in sé, in quanto contraria ai principi della correttezza professionale, senza necessità che la valutazione della slealtà sia effettuata in relazione all’attività dei concorrenti. Tradizionalmente si ritiene, che la pubblicità menzognera consista nella falsa attribuzione ai propri prodotti di qualità o pregi non appartenenti ad altri concorrenti, e quindi non riconducibile alla fattispecie legale della appropriazioni di pregi. Siamo quindi, in presenza di pubblicità menzognera ex articolo 2598 n. 3 c.c. ove l’oggetto dell’appropriazione sia una qualità non specifica, sia essa effettivamente posseduta dalla concorrenza od invece inesistente.

 

Segue :e) storno di dipendenti: lo storno di dipendenti è un atto concorrenziale riconducibile alla funzione aziendale di politica del personale, e realizza, una fattispecie di concorrenza sleale ex articolo 2598 n.3 c.c. tutte le volte in cui la sottrazione del personale altrui e la conseguente assunzione avvenga allo scopo di                                                                                                                                                                                                                      disgregare e/o disorganizzare l’azienda del concorrente acquisendo, in tal modo, una più ampia quota di mercato. Lo storno di dipendenti pone tuttavia un problema di conciliazione tra diversi interessi di rango costituzionale: quello dell’imprenditore a conservare l’integrità della sua azienda, al fine di poter svolgere la propria iniziativa economica-articolo 41 Cost.- e quello del lavoratore dipendente a scegliere liberamente la propria occupazione nell’intento di migliorare la propria posizione professionale- articolo 35 Cost.. Ponendo quindi riguardo a questi due articoli, assume notevole importanza, soprattutto la dimensione o la modalità dello storno e le qualità professionali dei dipendenti sottratti;e tuttavia non si può prescindere dalla verifica dell’intenzione del concorrente di effettuare lo storno per migliorare la produttività della propria azienda ovvero per danneggiare quella del suo rivale: anche uno storno massiccio di qualificati dipendenti, può ritenersi lecito nella misura in cui avvantaggia realmente l’imprenditore che lo pone in essere, e solo di riflesso danneggia il concorrente. Quindi, un orientamento dottrinale, giustifica l’illeicità dello storno sulla base di elementi di fatto che fanno presumere l’intervento esclusivamente distruttivo dell’impresa concorrente da parte dell’autore dello storno. In questo senso, il reclutamento del personale dipendente si connota di intenzionale slealtà ogni volta che venga attuato con modalità abnormi per numero o per qualità dei prestatori d’opera, si da superare i limiti di tollerabilità del reclutamento medesimo che, nella sua normale estrinsecazione, è del tutto lecito.

Segue :f) la concorrenza dell’ex dipendente: la concorrenza dell’ex dipendente è un’ipotesi assai frequente che da luogo a non poche vertenze giudiziarie. Quando l’ex dipendente si “mette in proprio”, e fa dunque concorrenza al suo ex datore di lavoro, è fatale che a quest’ultimo la cosa dia particolare fastidio, dato che si tratta di un concorrente che sa tutto o quasi dell’impresa di origine e può sfruttare queste conoscenze per battersi concorrenzialmente contro di essa da una posizione per

certi versi privilegiata. Tuttavia la giurisprudenza, in materia, ha enunciato il principio secondo il quale, in assenza di un valido patto di non concorrenza , cessato il rapporto di lavoro e, con esso, l’obbligo di fedeltà di cui all’articolo 2105 c.c., il lavoratore può, utilizzare le esperienze e le cognizioni tecniche acquisite a causa del lavoro svolto. Secondo una parte maggioritaria della giurisprudenza, la concorrenza sleale dell’ex dipendente non rappresenta un’autonoma fattispecie di illecito concorrenziale, ma soltanto un’espressione generica attraverso il quale viene di solito giustificato un maggior rigore nella valutazione di fatti di per se stessi astrattamente riconducibili all’ambito della concorrenza sleale.

 

Le sanzioni:

La giurisdizione nell’azione di concorrenza sleale spetta in gran parte alle Sezioni Specializzate istituite presso un certo numero di tribunali, ed una parte residua al giudice ordinario. Questa bipartizione è determinata dall’articolo 134 c.p.i. che appunto prevede  la devoluzione alla cognizione delle Sezioni Specializzate di tutte le controversie in materia di concorrenza sleale, con esclusione di quelle che non abbiano a che fare, con l’esercizio dei diritti di proprietà industriale e quindi: dei marchi e degli altri segni distintivi, dei disegni e dei modelli, delle innovazioni, delle informazioni aziendali riservate e delle nuove varietà vegetali, ecc.

La sanzione inibitoria: la sentenza che accerta il compimento di uno o più atti di concorrenza sleale può applicare, su domanda di parte, le sanzioni previste dagli articoli 2599 c.c.:

          La sentenza che accerta atti di concorrenza sleale ne inibisce la continuazione

           e dà gli opportuni provvedimenti affinché ne vengano eliminati gli effetti

o 2600 c.c.:

          Se gli atti di concorrenza sleale sono compiuti con dolo o con colpa, l’autore

           è tenuto al risarcimento dei danni.

           In tali ipotesi può essere ordinata la pubblicazione della sentenza.

 

I dettati dei due articoli, consistono nell’inibitoria di continuazione dell’illecito, nella emanazione di opportuni provvedimenti per eliminare gli effetti, nella pubblicazione della sentenza di risarcimento danno. L’applicazione di queste sanzioni, con la sola eccezione del risarcimento, presuppone solo l’accertamento della sussistenza oggettiva di atti di concorrenza sleale, senza che rilevano né lo stato soggettivo- dolo o colpa- dell’autore, né l’esistenza di un danno effettivo. L’inibitoria è il divieto, espressamente posto dal giudice al soccombente, di continuare l’attività o ripetere l’atto dichiarato illecito. Come abbiamo detto, essa può venir disposta anche in assenza di dolo e colpa, e anche ove non sia provato alcun danno;per contro però, la pronuncia inibitoria è subordinata al fatto, ed alla prova, che l’illecito sia tuttora in atto, o che ne sia probabile la ripetizione. Qualora l’inibitoria non venga spontaneamente rispettata, è controverso se si possa procedere ad una esecuzione forzata di essa. La violazione dell’inibitoria si considera però repressa dall’articolo 388 c.p., che punisce la mancata esecuzione di un provvedimento del giudice, anche se questa norma limita il reato a caratteri che non è del tutto certo possano reperirsi nell’inibitoria degli atti di concorrenza.

 

Le altre sanzioni e il risarcimento del danno: un’altra sanzione prevista dall’articolo 2599 c.c. è costituita, dagli “opportuni provvedimenti” per la rimozione degli effetti dell’atto, che possono consistere in un ordine di distruzione, o di ritiro dal commercio, dei beni realizzati con l’attività illecita. La condanna al risarcimento del danno per concorrenza sleale ai sensi dell’articolo 2600 c.c. può essere disposta solo in presenza dei presupposti generali di cui all’articolo 2043 c.c., ed occorrono quindi il dolo o la colpa del convenuto e la prova del danno sofferto. Si richiede qui il danno effettivo e non la mera idoneità dannosa che è elemento costitutivo dell’atto di concorrenza sleale. La domanda è soggetta al limite della prescrizione quinquennale disposto dall’articolo 2947 c.c. La liquidazione del danno, da luogo a delicati problemi, che possono essere in parte aggirati tramite la valutazione equitativa- articolo 1226 c.c., richiamato dall’articolo 2056 c.c.. Possono riscontrarsi dei danni emergenti ( esempio, spese pubblicitarie rese vane dall’illecito comportamento altrui); ma nel danno da concorrenza sleale è sempre presente un lucro cessante, che è di difficile qualificazione. Esso dovrebbe corrispondere al mancato utile netto dell’attore che sia causalmente ricollegabile all’attività sleale del concorrente;nella pratica, si tiene spesso conto del maggior guadagno conseguito dal concorrente tramite il suo illecito. Il giudice può altresì ordinare, su domanda di parte, ma nell’esercizio di un potere discrezionale, la pubblicazione della sentenza- articolo 2600, comma 2, c.c.-, dettando la modalità di tale pubblicazione.

La quantificazione del danno si identifica con l’utile lordo che l'attore non ha realizzato in conseguenza della condotta illecita. Se manca la certezza circa la quota di mercato che l'attore avrebbe occupato in assenza del comportamento illecito, la giurisprudenza mette a confronto la diminuzione delle vendite o la mancata espansione dell'impresa attrice con l'incremento delle vendite del convenuto, anche utilizzando la presunzione che il concorrente sleale abbia praticato prezzi inferiori a quelli che avrebbe praticato l'attore. La determinazione del quantum si basa sul risultato realizzato dal concorrente sleale, ma non sempre il risarcimento ha finalità riparatorie, ed assume anzi colorazioni sanzionatorie, facendo conseguire al danneggiato un introito superiore a quello che in condizioni di normalità sarebbe stato capace di realizzare.