MARKETING

30 settembre 2012

Italianing, l’Italia in movimento

di Mauro Loy

Quanta Italia c’è nel mondo? Trascorrendo le meritate ferie estive in giro per il nord-est d’Europa ho avuto la percezione di come dietro un’incalzante globalizzazione si celino affascinanti culture locali. Culture che, pur nella loro peculiarità, evidenziano la grande influenza di un’Italia creativa che, nel passato, ha incantato e contaminato il vecchio continente. Architetture, strategie di urbanizzazione, opere artistiche e letterarie, figlie di un talento che ha portato nel mondo, allora conosciuto, il “buono e ben fatto” dell’italianità. Ho percorso chilometri e chilometri prima di arrivare alla prima tappa del mio “grand tour”: tirato il freno a mano, sono sceso dall’auto e ho iniziato a camminare. È come se mi fossi sdoppiato: gli occhi dell’appassionato d’arte sono stati subito catturati dai monumenti che disegnano l’immagine della città mentre, quelli dell’analista di marketing sono stati incuriositi dalle diverse espressioni di commercio che prendono vita nelle piazze e nei vicoletti. Ho sorriso perché mi sono accorto di quanta bella Italia c’è nel mondo. Di come il fenomeno che oggi chiamiamo “internazionalizzazione delle imprese italiane” ritrovi i natali negli “artisti di corte”. Con il rinascimento gli “artigiani” escono dalle botteghe perché chiamati nelle corti europee per il loro “sapere” ed il “saper fare” italiano. E così, diversi secoli dopo, mi sono sorpreso ad osservare prestigiosi palazzi progettati da menti italiane, a fare la fila per ammirare opere d’arte realizzate da mani italiane, a rimanere ammaliato da iconostasi decorate con pietre e marmi italiani. Dall’altra parte invece, ritrovo le grandi griffes del lusso made in italy accostate ai numerosi esercizi ristorativi dal sapore (quasi) mediterraneo. Proseguendo il viaggio, sono stato catturato da un piccolo tricolore cucito su un mocassino stile vintage. Sono entrato nel negozio, ho misurato ed acquistato. Solo davanti ad un piatto di Rostbratwurst ho realizzato che l’unico acquisto fatto a Dresda è stato un prodotto italiano. Quanta Italia c’è nel mondo? O meglio, che tipo di Italia c’è nel mondo? Il made in Italy che oggi si rintraccia nei mercati esteri presenta un livello di discontinuità rispetto al passato, quando “Italia” era sinonimo di stile, innovazione e creatività. Una discrasia tra “artigiani” di ieri ed imprese di oggi che ha ridotto il vantaggio competitivo costruito nel tempo. È come se nel processo evolutivo ci sia stata un’anomalia cromosomica che ha rallentato lo sviluppo dell’embrione italico, finora alimentato dalle tanti menti che hanno costruito la forza dell’Italia produttiva. Tutto questo è il frutto di un inefficiente coordinamento tra le realtà imprenditoriali del Bel Paese – in particolare delle “piccole eccellenze” – e soprattutto, di un sistema centrale di accompagnamento all’estero ormai obsoleto e farraginoso, che fatica a seguire la velocità dei mercati globali. La realtà produttiva tricolore è entrata in un oblio paralizzante, accelerato dal fenomeno della mondializzazione. Negli ultimi cinquant’anni è stato alimentato un sistema capitalistico “parassitario” che gradatamente ha appiattito il mercato. È stata sostenuta l’idea di un consumo forsennato che, da un lato ha accresciuto l’appetito di beni di consumo e dall’altro, ha declassato il concetto di qualità. Si è intrapresa la strada della “produzione continua” per rispondere ad una domanda da far crescere e, solo in questo modo, remunerativa. Il sistema determinato ha profondamente inciso sui consumatori, che hanno modificato i propri bisogni e stili di vita, come evidenziano le mutate scelte di acquisto. I cambiamenti verificatisi hanno lasciato indietro la piccola e media imprenditoria, mentre l’industria ha dovuto ripensare quel sistema produttivo che, in una prima fase di sviluppo, aveva permesso una crescita accelerata. I beni che prima erano considerati semidurevoli sono diventati di largo consumo, con un ciclo di vita sempre più ridotto. L’industria del bianco ad esempio, si è trovata a fare i conti con l’accelerazione dei consumi, unita alla globalizzazione dei mercati. Se da un lato si aprivano nuovi scenari di produzione a basso costo e nel mentre il mercato interno si saturava, dall’altro la rapida obsolescenza dei prodotti ha portato a spingere l’acceleratore sull’innovazione per rimanere competitivi e fuggire da mere logiche di delocalizzazione produttiva. Una scelta strategica quest’ultima, che incide solo sulla qualità del prodotto, senza creare efficienza nel rapporto costi/benefici. La mancata interpretazione dei fenomeni di mercato – in cui è sempre più evidente la forte polarizzazione, in prodotti personalizzabili e ad alto contenuto innovativo contro i beni a basso prezzo d’acquisto – ha portato al collasso quelle aziende, come la “Merloni SpA”, che non hanno seguito i processi evolutivi della domanda, depauperando così l’economia locale che avevano creato con l’investimento iniziale. Al contrario se si osservano le strategie della Whirlpool, che per il triennio 2011-2013 ha adottato un piano di investimenti per i siti del Varese pari a 42 milioni di euro per innovazioni di prodotto, processo e ricerca tecnologica, si comprende come l’Italia possa essere ancora il centro nevralgico di un’innovazione che crea competitività negli scenari mondiali. Con l’avanzata nello scacchiere geo-economico dei paesi in via di sviluppo, si sono affacciate classi sociali con reddittualità elevate, che possono alimentare la domanda di made in italy. È da qui che riparte la corsa del settore produttivo italiano, da un mercato estero che richiede ormai, solo le eccellenze italiane. È con le alleanze e la contaminazione dei mercati che si può resistere alla stagnazione del mercato interno e all’instabilità socio-politica che sta deprimendo l’Italia. La Fiat dell’era Chrysler, è un esempio vincente di come l’innovazione si possa coniugare con la tradizione riuscendo così, ad intercettare nuovi mercati di distribuzione. Le nuove autovetture difatti, presentano un carattere spiccatamente americano pur conservando nelle finiture, i tratti dello stile italiano: un mix vincente, frutto di una strategia di sviluppo che ha superato le problematiche in termini di costi, in favore di un modello che ha ragionato su un rapporto equilibrato costi/produttività. I mercati mondiali sono i campi di gioco dove si è spostata la partita sia dei consumi, sia della produzione. Una partita che vede il “made in italy” primeggiare sui concorrenti, da saper cogliere ed interpretate per far ripartire il settore produttivo nazionale. Come già espresso nei precedenti interventi ospitati in questi spazi di riflessione rievoco il concetto di italianing, ovvero l’Italia in movimento, l’Italia delle menti, l’Italia del fare. L’Italia che riscopre il proprio dna e lavora per creare qualità ed innovazione, come si evince dalla domanda di mercato. La situazione recessiva ormai conclamata sta indebolendo inesorabilmente il tessuto produttivo italiano: se da un lato il Cerved Group rileva per l’Umbria +59% di fallimenti aziendali dall’inizio 2012, dall’altro sbalordiscono le 200 domande pervenute per i corsi di operatrici di maglieria specializzate nel cashmere, a fronte di una disponibilità di 14 addetti. Da cosa si riparte quindi? Dalla qualità dei piccoli che ricercano, innovano, si uniscono e creano sistemi pronti ad affrontare le turbolenze del mercato interno e la velocità di quello mondiale. Si riparte cercando di portare dentro al locale, i fenomeni globali, perché è anche da qui che passa l’internazionalizzazione delle imprese. Osservando il distretto della maglieria e dell’abbigliamento di Perugia, che registra una notevole vitalità con un valore di esportazioni pari a 251 milioni, non ci si può esimere dal citare il gigante del cashmere Brunello Cucinelli. Compiuto il salto della borsa, il “piccolo” che è diventato “grande” negli scenari mondiali ha ben saputo interpretare le dinamiche dei mercati, facendo leva sulla dimensione della tradizione e del localismo per affascinare i consumatori globali. Inoltre, la scelta di posizionamento nel settore dell’alta gamma, unita ad una comunicazione che ha integrato l’aspetto qualitativo del prodotto alla dimensione etica della business strategy, hanno permesso all’imprenditore umbro non solo di evolvere la propria azienda, ma di creare una micro-economia locale che vive di produzione, formazione e turismo. È questo l’effetto che dovrebbe creare il fenomeno dell’internazionalizzazione. Non solo un mero processo di esportazione del prodotto, ma un veicolo del lifestyle italiano, che innesca il desiderio di vivere ed assaporare la penisola tricolore. Come nel periodo dei “grand tour” quando l’Italia era meta ambita per la formazione di artisti, letterati e scienziati la rivitalizzazione del tessuto imprenditoriale nazionale può ripartire dalla riscoperta del talento e della vitalità eclettica del made in italy. Un sistema che esalta, nell’era globale, le singole realtà locali che nel loro piccolo si sono confermate eccellenze come dimostra il settore della ceramica, del vitivinicolo, della bioraffineria delle plastiche, dei materiali per l’edilizia. Realtà produttive su cui puntare per alimentare un sistema di consumi ormai collassato, ma che vede nelle economie oggi in via di sviluppo, nuove opportunità di crescita. La sfida dell’internazionalizzazione non si gioca solo all’interno delle aziende, ma anche a livello di sistema centrale di accompagnamento dell’universo made in italy. Le istituzioni competenti presentano un sistema di accompagnamento all’estero non allineato alle esigenze dei mercati e delle imprese. Superati i modelli delle fiere di settore o degli uffici sul territorio di approdo, l’imprenditoria manifesta la necessità di un sistema capace di aumentare la competitività dei “piccoli”. Un modello quindi, capace di aggregare, creare massa critica e definire un set di servizi (quali il marketing, la comunicazione, la logistica) da sviluppare collettivamente per abbattere i costi e creare valore aggiunto. Paul Valéry nel 1928 ha scritto: “tutta la terra abitabile è stata ai nostri giorni perlustrata, rilevata e divisa tra le nazioni. Non vi sono più vuoti sulla carta, né regioni senza dogane e senza leggi. Comincia l’era del mondo finito”. Una visione alquanto pessimistica che al contrario leggo come una provocazione per rispolverare il DNA di un’Italia geniale, innovativa, capace ancora di sorprendere ed incantare. È dallo sforzo congiunto tra piccoli e grandi, tra imprenditori ed istituzioni che si riparte per riportate il made in Italy alla ribalta dei mercati dell’eccellenze e per confermare il “buono e ben fatto” tricolore, come locomotiva della ripresa economica del Bel Paese.