Percorsi per l'internazionalizzazione del sistema Umbria

A cura di Federico Fioravanti

Intervento di Gaetano Fausto Esposito

Segretario Generale Assocamerestero

La convention a Perugia delle Camere di Commercio italiane all'estero è un appuntamento prezioso per migliorare l'organicità delle politiche di internazionalizzazione.


La convention delle Camere di Commercio italiane all’estero è, in qualche modo, un ritorno. Nel 2001 organizzammo, proprio a Perugia, il meeting dei segretari generali. Quell'incontro produsse una serie di effetti positivi che possiamo vedere ancora oggi. Adesso, per esempio, circa un terzo delle 76 Camere di Commercio italiane all’estero lavora con il “sistema Umbria”. Non era così dieci anni fa. In quella occasione, a Perugia, fu colta una potenzialità. Dovete considerare che dieci anni fa venivamo fuori dall’esperienza dei distretti: c’erano cinque, sei, sette realtà distrettuali abbastanza rinomate che adesso si sono trasformate in qualcos’altro. Il distretto era fatto di reti corte, di un know-how produttivo e di rapporti di subfornitura. Ma proviamo a capire cosa è successo in questi dieci anni. Oggi i Paesi e le imprese che insistono sul territorio sono importanti ma in una logica che agli economisti piace definire “di filiera”. E' un processo molto più complesso del passato. Parliamo di filiere cognitive globali. Per cui, ad esempio, l’aerospazio non è importante per il manifatturiero, l’aerospazio è importante perché in qualche modo si connette con tanti altri soggetti nel mondo. Per produrre che cosa? Fondamentalmente sapere. Sapere da applicare.
Undici anni fa, le Camere di Commercio italiane all’estero erano 60 e facevano, occhio e croce, 27 milioni di euro di servizi per l’internazionalizzazione. Oggi sono 76 e producono circa 50 milioni di euro di servizi per l’internazionalizzazione. Nel frattempo, man mano che procedevano questi rapporti, man mano che si sviluppavano queste idee di filiere cognitive, si è andato affermando un modello, che non è un ossimoro, di “sviluppo selettivo diffuso”. E si sono ridotte le aziende che esportano. Non abbiamo più i campioni nazionale di politica industriale ma campioncini locali che però sono capaci di trainare l'economia.
Parliamo spesso di filiere di impresa, perché bisogna rendersi conto che anche se non esistono specifiche  barriere per le aziende più piccole, l'internazionalizzazione oggi si gioca su fattori di scala. E quindi deve essere chiaro che è fondamentale realizzare delle aggregazioni. Reti e filiere, ma più strutturate rispetto al passato.
Poi, le imprese che affrontano i mercati internazionali hanno bisogno, prima di tutto, di avere un linguaggio di accesso. Perché se si allungano i flussi di esportazione in termini chilometrici si allunga anche la distanza culturale di questi flussi di esportazione. Ad esempio, si fa spesso della retorica sul fatto che l’Italia sia la “portaerei nel Mediterraneo” ed è certamente vero perché siamo il  primo o il secondo esportatore per molti paesi arabi. Ma dobbiamo tener conto del fatto che la distanza culturale che abbiamo con molti paesi del Mediterraneo è maggiore di quella che esiste verso gli Stati Uniti, nostro tradizionale partner. Se parliamo di circuiti, come dire, di filiere globali, allora il problema diventa: sì, d’accordo, ma se io voglio poi fare un collegamento stabile con il mio partner, chi lo conosce? Il punto è questo. Internet, informazione codificata, molto bene, di base. C'è sempre un problema di fiducia nella controparte da superare.


Poi, la grande sfida del radicamento delle imprese...  


Io dico sempre che le imprese italiane sono brave a vendere la partita di merce ma poi non riescono a radicarsi nei territori delle esportazioni. Perché non è vero, se non in qualche libro di testo, che il mercato offre le stesse opportunità a tutti. La verità è che gli imprenditori per rimanere hanno bisogno di qualcuno che dopo lavori per loro. Siamo abituati a fare le missioni. Una bella missione che tanto “male non fa”. Ma bisogna, prima di tutto, organizzarla bene dall'Italia. E il vero problema è lavorare dopo, quando comincia l'opera essenziale: il radicamento dell'impresa nel territorio.


Da questo punto di vista, può essere prezioso il lavoro dell'ente camerale.


Le Camere italiane all’estero sono associazioni di impresa, perché sono Enti privati riconosciuti dal Governo italiano, che fanno attività sostanzialmente di relazione e di supporto per il business. Abbiamo detto che nel mondo circa un terzo delle Camere già lavora con l'Umbria.
Vediamo cosa non fanno le Camere perché generalmente tutti dicono cosa facciamo. Le Camere non fanno, per esempio, le grandi manifestazioni di Paese, le Camere non seguono tutti quei grandi progetti che spettano al soggetto pubblico, perché, come si diceva prima, ci sono delle economie esterne che richiedono investimenti pubblici e il mercato non entra su queste cose.
Che cosa fanno invece le Camere? Le Camere aiutano le imprese a mettersi in contatto e a mantenere i rapporti. Quindi l’attività strategica del radicamento, l’attività di conoscenza del partner imprenditoriale, la gestione dei seguiti delle varie missioni, eccetera. Ma perché le Camere riescono in queste attività? La risposta è banale: lo fanno perché sono soggetti locali esteri. Quindi noi, per essere chiari, “ci mettiamo la faccia”. Perché le Camere rimangono lì sul mercato estero, anche quando la missione è finita. E se è stato un insuccesso – come sanno gli imprenditori qui presenti – sono le Camere che devono tornare comunque a gestire le missioni future e a preparare il terreno per chi verrà dopo.
Cosa bisogna aspettarsi dalle Camere? Nell'ultimo decennio c'è stata una crescita importante di assistenza e di conoscenza nei vari mercati del mondo. Le Camere possono dare un supporto stabile all’estero sulla manutenzione delle filiere. Perché è vero che le realtà distrettuali di dieci, undici anni fa non ci sono più ma è anche vero che è cambiato il concetto stesso di Made in Italy: anni fa parlavamo di tessile e abbigliamento ma ora qui si discute di aerospaziale, di energia sostenibile e di un settore di servizi che si è ben sviluppato nel tempo. E allora per lavorare  bene e crescere serve una nuova politica industriale per l’impresa.
Uso un’espressione che sembrerà apodittica a chi si occupa di queste cose: io dico sempre che non esiste la politica per l’internazionalizzazione. Esiste solo una politica per la competitività. L'internazionalizzazione è un fattore trasversale. Se le imprese competono meglio, e per farlo c'è bisogno di capitale umano più qualificato e di innovazione continua, allora si internazionalizzano meglio. Aver detto che la politica dell’internazionalizzazione è una cosa separata ci ha portato a qualche distorsione, per cui gli strumenti usati sono la fiera o la missione.  Ma con le filiere ed il lavoro di radicamento, l'incontro delle realtà locali con le realtà estere si potrà sempre più basare su una “rete lunga”. Una rete fatta di fiducia perché le Camere di Commercio italiane all'estero, così come le Camere di Commercio italiane, sono fatte di persone e sono fatte di imprenditori.

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Esposito, se dovesse dare un voto al nostro “sistema paese” per quanto riguarda l'internazionalizzazione, che voto darebbe?

Un voto molto al di sotto della sufficienza. Ma il punto reale da capire è che cosa significa fare “sistema Paese”. Io sono abbastanza diffidente quando si dice: prendiamo un modello di un altro paese e applichiamolo all'Italia. In genere non ha mai funzionato. La Germania è un paese che ha la metà delle imprese italiane. E presenta una struttura produttiva in cui ci sono piccole e medie imprese ma che fondamentalmente si basa su campioni nazionali. È evidente che fare internazionalizzazione di campioni nazionali con un supporto del governo è molto più facile, perché si va a portare fuori dai confini nazionali una massa critica rilevante con pochi soggetti.
Dalla Germania cosa stiamo invece mutuando? Una cosa che in realtà abbiamo fatto prima di loro ma sempre in maniera spontanea: il ruolo del sistema camerale nei processi di internazionalizzazione. La Germania ha un sistema di Camere di Commercio all’estero che fa direttamente riferimento alla struttura nazionale dell’Unioncamere. Quel modello lì va bene perché la Germania è un paese molto compatto.
L'Italia invece ha sviluppato in maniera sussidiaria un sistema camerale in cui vi sono due entità, una nazionale e poi Assocamerestero, in cui l’unione nazionale è presente. Però al di là delle architetture, che poi non interessano a nessuno, il punto vero è che in Italia adesso si sta dicendo questo, l’unica cosa che si può dire per mettere d’accordo le persone quando non ci sono i soldi, perché le volontà politiche sono sempre convergenti, poi le volontà operative, chissà perché, divergono.
Nella “intelligence” sui mercati del mondo, occorrerebbe un maggior raccordo tra gli enti preposti alla internazionalizzazione e il ministero  degli Affari Esteri.
Abbiamo un livello di presenza sui territori, come spiegava Pettinato, su cui il sistema camerale italiano si sta impegnando in modo capillare.
Sull'estero sta agendo l'Agenzia, o ex Ice, con minori risorse focalizzate su alcuni mercati e le Camere di Commercio italiane all'estero che, soprattutto su alcuni comparti, dovranno ragionare in maniera più integrata con l'Agenzia, soprattutto sui mercati dove l'ex Ice cercherà di ridurre la sua presenza.
Attenzione poi all'Europa: vale il 56,7% delle esportazioni però parliamo di mercati nei quali non serve il lavoro di “apripista” ma il presidio, la manutenzione. Basta pensare che Germania e Francia sono i primi due paesi per le nostre esportazioni.
La carenza di risorse, per la prima volta, ci sta portando ad una convergenza di programmi.
Rimane vero un fatto: lo sviluppo italiano nasce dal basso. E allora, professor Ferrucci, sono un po' preoccupato quando si parla di mutuare esperienze da altri Paesi, come quella che lei citava dei giovani che in Inghilterra vengono selezionati per quoziente di intelligenza e destinati allo studio del cinese.
Non è questa la storia del nostro Paese. Guardiamo agli altri ma interpretiamo le esperienze con la nostra originalità. E qui devo spezzare una lancia a favore del sistema camerale, perché stiamo facendo “sistema”. Nel confuso alternarsi di vicende intorno alle politiche di internazionalizzazione, alla fine chi è rimasto e si è consolidato, tra l’altro senza grande dispendio di risorse pubbliche, è proprio il sistema camerale che ha saputo anche recuperare bene in questi anni un forte rapporto con gli utenti regionali.
Le pagelle le daranno gli imprenditori. Noi siamo i destinatari dei giudizi. Ma credo che il voto sulla internazionalizzazione, piano piano si sta avvicinando alla sufficienza.