Per una valorizzazione dei mestieri artigiani e delle abilità manuali. Verso il futuro, innovando

A cura di Federico Fioravanti

Intervento di Enzo Rullani

professore di economia della conoscenza presso la Venice International University

Va riscoperta la manualità, a partire dalla scuola. L'artigianalità è un valore da recuperare.
Da dove cominciare?

Questi dati ci pongono di fronte ad un grande problema, che è quello dell’evaporazione del futuro. Noi cominciamo ad avere l’idea che nel futuro non sappiamo se lo sviluppo sarà più con noi:. Tutta una serie di segnali ci dice che il futuro si sta spostando, sta andando verso l'Asia e verso attività che sono diverse da quelle in cui noi ci siamo specializzati. Quindi viviamo una sorta di angoscia: quella che la nostra specificità, quella italiana, ma anche quella umbra, in questo momento sia sbagliata e non incontri più il ciclo della storia. In particolare, questo riguarda l’impresa artigiana, che poi è gran parte della specificità italiana, cioè quello che rende diverso il sistema produttivo italiano da altri sistemi industriali avanzati: questa grande presenza della piccola impresa e dell’impresa artigiana.  
Negli anni Sessanta l’impresa artigiana era presente e vitale, però tutti la davano come un’entità in estinzione, perché il futuro era la grande impresa, la grande impresa formalizzata, strutturata, per cui c’erano tanti artigiani, facevano bene il loro mestiere, finché durava, poi la modernità, secondo le previsioni, li avrebbe spazzati via.
Ora, tutto questo non è successo, perché dagli anni Settanta in poi è cambiata completamente la prospettiva. Il fordismo della grande impresa, cioè una grande organizzazione industriale modello Ford, inventata da Ford, con migliaia di dipendenti ed un mostruoso volume di produzioni di massa  è andata in crisi perché il mondo è cambiato, è diventato più complesso e mobile. E le grandi strutture  organizzate e burocratizzate hanno fatto e fanno fatica a seguire il cambiamento.
Allora chi è che segue il cambiamento e fornisce la flessibilità ai sistemi industriali ed europei, che sono quasi tutti diventati grande impresa? Quei Paesi, quindi l’Italia, e l’Umbria in particolare, che hanno ancora conservato questa base di imprenditorialità artigiana e personale, questa base pratica, dove certo non ci sono grandi economie di scala, ma c’è la qualità, perché c’è il “mestiere”, e c’è la capacità soprattutto di usare la testa della gente e non i piani burocratici biennali, triennali, quinquennali, fatti dalle grandi organizzazioni per soddisfare un mercato che cambia tutti i giorni e per inventarsi prodotti di nicchia, prodotti nuov. In sostanza, quella capacità di servizio al cliente che le grandi organizzazioni trascurano.
Quindi noi dagli anni Settanta al Duemila abbiamo riscoperto le virtù dell’artigiano, della piccola impresa, dell’impresa personale. Ma questa scoperta è stata inconsapevole.
È bella l'immagine coniata da Becattini, che ha parlato della "economia del calabrone". Se si facessero dei calcoli scientifici sulla portanza delle ali e sulla forma del calabrone, questo insetto non potrebbe volare. Però per fortuna il calabrone non conosce la scienza e allora prova a volare e vola. Ecco, l’economia della piccola impresa e dell’artigianato, dal 1970 al 2000, in questi trent’anni, è stata l’economia del calabrone.
I piccoli imprenditori non erano mai stati all’Università, dove noi gli avremmo spiegato che loro non avevano futuro, finché andava bene, ma poi il futuro era la grande azienda e altre cose. Loro non sono venuti da noi a imparare questa cosa, hanno provato e ce l'hanno fatta. Quindi, in qualche modo, senza consapevolezza, abbiamo visto che funzionava questo modello e abbiamo detto: ma allora il mondo non è come ce lo immaginavamo, ha altre caratteristiche. E pian piano anche gli economisti hanno iniziato a parlare e a studiare il mondo dei distretti industriali. Un tempo invece, all'università, per spiegare agli studenti che cosa era la modernità, si parlava dell'acciaieria.
Allora la grande acciaieria funzionava con le sue leggi. Ma certo, dentro l'acciaieria non c'erano gli artigiani dell’acciaio: tutto era preordinato. Un ciclo rigido. In un certo senso, un altro mondo.
Negli anni ‘70, ‘80, ‘90 tutta questa giovane leva di economisti e le associazioni imprenditoriali, CNA, Confartigianato e il mondo della piccola impresa, ha cominciato a scoprire questo fenomeno. Ma non ci siamo bene resi conti di perché avesse successo: lo abbiamo attribuito al fatto che erano bravi ed operosi. Allora la domanda è: perché allora questa gente capace, che c’era anche prima, non veniva considerata il futuro ma il passato? Era cambiato il mondo, era in crisi una forma rigida di organizzazione industriale da parte di altri Paesi, di un altro modello industriale, e quindi si era creato uno spazio per noi. Perché è importante questa visione? Perché poi questo spazio si è chiuso, e dal 2000 in poi è girato il mondo, e sono accadute due cose molto importanti, che si  svilupperanno ancora per i prossimi cinquant’anni e con cui dobbiamo fare i conti.
Il primo grande cambiamento è la smaterializzazione dell’economia, cominciata negli anni ‘90.
Ricorderete la New economy, questa idea un po’ vertiginosa che ci ricorda che il mondo è diventato un villaggio globale. Cioè: tu vivi qui ma puoi parlare, o entrare in contatto o interagire con qualcuno, con dei processi produttivi, con delle macchine, con delle radiografie che stanno a diecimila chilometri di distanza come se fossero qui. Questo è un nuovo modo di vivere, che comporta dei moltiplicatori che l’artigiano non può avere, finché lavora sul piano empirico, locale e personale.
Come fa l’artigiano a entrare in contatto con il giapponese che sta lontano, spiegandogli che lui sa fare delle cose di qualità, buone, affidabili, se non riesce a interagire dentro questa rete?
Siamo quindi arrivati ad un grande salto di produzione. Le conoscenze vanno codificate, cosa che l’artigiano non fa, perché le conoscenze l’artigiano le ha nella sua testa: E' quella che chiamiamo “conoscenza generativa”. E' la forza dell'artigiano ma anche la sua debolezza. Perché la conoscenza generativa si può spiegare bene a chi sta vicino a te, che parla con te, ma fai fatica a spiegarla a qualcuno che vive lontano da te e con cui non riesci ad interagire. Allora la devi codificare. Queta è la grande trasformazione che è in atto. Il mondo è cambiato.
In più il mondo si è anche globalizzato. Dopo la caduta Muro di Berlino, nel mercato sono entrati altri, con costi del lavoro molto più bassi dei nostri. Per cui tutta una serie di attività che prima noi nella filiera facevamo, per esempio, per i committenti tedeschi, hanno cambiato indirizzo. Si sono spostate in Polonia o in Asia, dove il rapporto dei costi di lavoro è impressionante: 1:10, 1:20 ma anche 1:30. È una rivoluzione produttiva nella quale tutto un mondo entra in campo, con miliardi di persone che imparano a produrre con le nostre macchine, un po’ copiate, un po’ perché gliele portiamo noi con le multinazionali, un po’ perché sono bravi anche loro. Questo è il punto: non è che siano meno bravi di noi e quindi bisogna imparare a sfruttare le differenze che emergono nel mondo. E anche questo per l’artigiano è difficile. Perché se c’è una cosa che in un certo Paese costa la metà, o è più avanzata di quella che fai tu, la devi andare a prendere lì. Questa è la logica nuova della filiera globale. E l’artigiano, che in fondo si serviva di un sistema tutto locale, quindi prendeva quello che localmente c’era, che sperava fosse buono, si è accorto che, certo è ancora buono, però non è più eccellente, perché si fa anche da un’altra parte, dove costa meno, o è migliore dal punto di vista del risultato, oppure più specializzato, più avanzato, più innovativo.
Bisogna avere quindi una rete ampia di collegamento. Non si può più stare nel sistema locale, dicendo: va bene, ma se io sto bene in Umbria, perché mi devo occupare di quello che fanno i francesi? No, perché magari in Francia succede qualcosa, per cui una cosa che si faceva qui, adesso in Francia costa la metà, oppure è più innovativa. E tu devi essere in collegamento.
Le due grandi trasformazioni degli Anni Duemila, la globalizzazione e la smaterializzazione, mettono in difficoltà questo modello dell’impresa artigiana e, in fondo, ci pongono il problema se l’artigianato ha di nuovo un futuro. Di fatto, siamo tornati a porci la domanda che ci ponevamo negli anni Sessanta. Perché? Perché l’artigiano è basato sulla materialità, la manualità. Ma nel mondo della grande rete e della Web economy, si viaggia sull'immateriale.
E allora perché l’artigiano dovrebbe avere un vantaggio, visto che il suo vantaggio è basato sulla manualità, sulla conoscenza generativa che sta sulla testa, sul software che moltiplica la stessa soluzione e la propaga nel mondo? Allora questa capacità diventa uno “svantaggio”.
E la stessa cosa avviene nel mondo globale. L’artigiano, come detto, è tipicamente locale ed esprime la sua professionalità, la sua qualità dentro un circuito ben noto, ben conosciuto e ben collaudato. Ma nel mondo globale è piccolo e fa fatica. Nel mondo globale deve partire con la valigia per trovare i clienti che stanno chissà dove.
Sembra quasi che l’impresa artigiana sia quella più sfavorita dal cambiamento che è avvenuto dal 2000 in poi. Ma questa immagine è sbagliata, è un’immagine che ci rilanciano sempre i media, anche un po’ gli economisti, che ovviamente dicono: avete visto che dicevamo noi che era sbagliato il modello dei distretti, delle piccole imprese? Voi avete insistito per trent’anni nel dire che andava bene, ma adesso il mercato ci punisce, adesso arrivano la smaterializzazione e la globalizzazione, e ritorniamo agli anni Sessanta. Questo ragionamento è sbagliato. Nel futuro c’è uno spazio, invece, per l’impresa personale, quindi tipicamente per le imprese modello artigiano, per le persone che diventano imprenditori.

Ma dove può nascere questo nuovo spazio per l'artigianato?

Prima di tutto guardiamo la realtà empirica: il Made in Italy è basato in gran parte sui valori dell’imprenditoria personale, sull’intelligenza generativa della gente, un po’ degli artigiani, ma anche di stilisti, di designer, che in fondo sono degli ‘artigiani della mente’, che hanno creato una filiera in cui loro si specializzano nel fare design. Poi ci vuole quello che applica i disegni e li trasforma in mobili, e lo stilista che ha bisogno di coloro che trasformano l'idea vincente in vestiti, in confezioni, in vendita.
Il Made in Italy, in fondo, è una sintesi di artigianato, reinterpretato per le nuove cose, perché diventa globale e immateriale. Perché, a proposito di immateriale, un designer fa un disegno, uno stilista esprime uno stile che si vende anche con la comunicazione televisiva. Ma dentro ha  quell’approccio pratico, personale, di conoscenza generativa che sta nella testa della gente. Questa è la base dell'artigianato, di chi usa la testa per fare un prodotto.
D’altra parte, anche nel mondo si stanno moltiplicando gli esempi di autori che recuperano questa dimensione dell’artigiano. Per esempio, il movimento dei cosiddetti makers, quelli che fanno, che fanno con le mani. Vediamo tutta una serie di persone che lavora in grandi aziende e usa il software e quindi non vede mai altra gente ma solo computer e bit che girano nell’aria. Ad un certo punto costoro si stufano e vanno a fare i riparatori di motociclette, cioè passano dall’altra parte, come se gli mancasse qualcosa. E in fondo, se ci pensate, questo fatto dell’immateriale che sostituisce il materiale è ridicolo perché noi abbiamo la materialità del nostro corpo e del contesto in cui il nostro corpo vive, nelle fasi essenziali dell’economia: quando si innova, quando cioè tu produci una nuova idea la produci col tuo corpo e il tuo cervello, mica solo con la mente immateriale. Infatti, le macchine e i software non pensano e non producono idee: replicano e basta. Per riprodurre una cosa nuova ci vuole la materialità, ci vuole la sofferenza del corpo, la passione, qualcosa che non è solo astrazione ma concretezza.
All’inizio del ciclo di un’idea c’è la materialità di una persona, in carne e ossa, che vive in un posto, vive a Perugia, per dire, e che non sarebbe la stessa cosa se vivesse a Seattle.
Quindi questa materialità è all’inizio, ma è anche alla fine. Quando una cosa arriva al consumatore finale e lui la consuma a casa sua, la materialità è fondamentale.
Perciò l’immateriale esiste solo a livelli intermedi, tra un’idea che nasce materiale e che è ancora materiale al momento del consumo. Ma nel mezzo si smaterializza. Perché? Perché si può moltiplicare e si può trasferire. Quindi la smaterializzazione non fa parte del mondo, perché il mondo di chi ha idee, di chi le consuma, di chi le usa è materiale. Quella che chiamiamo smaterializzazione fa parte della moltiplicazione.
Le aziende artigiane, così come sono oggi, hanno uno spazio di recupero del loro modo di lavorare ma devono recuperare questo spazio cambiando. Questa è la grande sfida.  Se non si cambia, non si sta dentro questo nuovo mondo, però in questo mondo così cambiato c’è lo spazio per starci.

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Professor Rullani, mi sembra che il dibattito abbia prodotto molti spunti di riflessione.


Gran parte dei discorsi che abbiamo fatto ruota intorno a una domanda: come facciamo a cambiare, a riposizionarci per guadagnarci il futuro?
Fermo restando che abbiamo fiducia e che non c’è qualcosa che ci impedisce di fare però abbiamo una difficoltà da superare e di questo dobbiamo essere consapevoli. Difatti, se abbiamo imparato a volare come il calabrone, noi non sappiamo perché voliamo: abbiamo visto che è successo, siamo contenti. Ora però come si fa ad aggiustare un calabrone che non vola più se non sai perché volava prima? Questo è il problema.
Voglio dire che non possiamo aspettare che di nuovo sia lo spontaneismo a vincere, perché oggi sappiamo che il vento dello sviluppo tira da altre parti. Cioè i cinesi potrebbero anche non sapere perché vincono, potrebbero anche sbagliare, tanto il vento adesso tira lì. Dobbiamo essere consapevoli che possiamo comunque farcela.
Perché l’artigianato, l’impresa personale, la tradizione italiana, cioè la nostra differenza nel mondo, di italiani e umbri  ha un futuro?
Io credo che vi sia una parola chiave a spiegarci il perché: perché il futuro del mondo vedrà un aumento esponenziale della “complessità”, cioè della varietà dei prodotti, dei problemi, delle agende, dalle intelligenze della variabilità di queste cose nel tempo. Prima è stata chiamata velocità ma è una dimensione nuova: tutto cambia, ogni sei mesi, ogni anno, ogni due anni.
Cresce la complessità. E se aumenta la complessità, chi risolve i problemi interni di un mondo che sfugge, che tutti i giorni è nuovo? Chi? Non certo le macchine, non certo i software, i modelli matematici, che sono replicativi per definizione. E non certo le burocrazie che sono lente, rigide. Saranno le persone: ecco perché l’impresa personale ha futuro.
Se il mondo diventa più complesso, saranno le persone ad avere la risorsa chiave che in qualche modo serve. Piccola o grande impresa, poco importa. Ci sono tanti modelli organizzativi, l’importante è che riescano a esprimere un’intelligenza individuale e collettiva. Dobbiamo creare un’intelligenza collettiva, una capacità di trasmettere le idee, recuperando questo ruolo dell’uomo, della persona.
Prima Mirabassi ha ricordato i giapponesi: i giapponesi non sono tornati indietro, sono tornati verso un uso maggiore dell’uomo come intelligenza personale: hanno  cioè eliminato una semplificazione che era stata applicata ai tempi di Ford, per cui l’intelligenza deve stare ai piani alti di qualche grande grattacielo sede della multinazionale mentre nella catena di montaggio c’è solo il lavoro esecutivo, la replicazione del lavoro.
Il nostro problema allora qual è? È invece di riconoscere che per affrontare i nostri problemi noi abbiamo bisogno di essere flessibili, mobili, dentro la complessità. Ecco la (Lim Productions) giapponese. Ecco il fatto che l’impresa giapponese – non lo sa quasi nessuno – usa tantissimi subfornitori, un po’ come l’Italia. Il modello italiano e quello giapponese sono simili, non sono modelli fordisti dove fai tutto tu, sono modelli dove tu utilizzi l’intelligenza degli altri, quindi degli uomini che lavorano in una catena flessibile, con grande autonomia, e dove se le cose vanno bene, come Mirabassi ci ha spiegato, si può sviluppare una collaborazione tra le varie teste.
Questa trasformazione, che dà spazio anche all’artigianato del futuro, la possiamo chiamare la “ripersonalizzazione” del mondo: il mondo del futuro sarà ripersonalizzato perché sarà così complesso che tutta la parte replicativa, meccanica, invecchierà alla velocità del fulmine e ci vorranno persone che tutti i giorni la rimettano in sesto.
Ma lo stesso concetto di qualità, in fondo, perché si riappoggia agli uomini? Perché deve essere qualcosa che le macchine non sanno fare, deve essere una continua riedizione dei modelli, dei cambiamenti, una garanzia del risultato.
Ecco che noi troviamo che le grandi imprese tendono a recuperare le intelligenze all’interno degli uomini, rendendoli più autonomi, e le piccole invece tendono a unire uomini prima separati per avere una forma collettiva di intelligenza e fanno quindi nascere le reti.
Concludendo, il nostro obiettivo deve essere quello di rimettere insieme il locale col globale ed il materiale con l’immateriale.
Ora, questa sintesi richiede un tipo di intelligenza, che possiamo chiamare “generativa”, nel senso che sta nella testa della gente e nel contesto in cui lavora, quindi nella società locale, nell’organizzazione locale, delle persone che si conoscono, che si parlano, che si stimano l’una con l’altra. Ma per dare valore a  questa conoscenza generativa, basata sull'individuo e sul territorio, dobbiamo far lavorare le persone in filiere globali. Quindi possono essere filiere in cui mi apro all’esterno sul mercato, o sulla filatura, a monte e a valle, ma possono essere anche filiere in cui mi apro con tutta la componentistica, che posso comprare fuori. Non c’è una forma unica. Non dobbiamo pensare che c’è un modo solo di stare in questa sintesi locale-globale.
La cosa importante è che tu qui rimane la conoscenza generativa perché quella non è trasferibile. E tutte le cose, invece, che sono trasferibili e mobili, anche se sembrano di alta tecnologia, se sono codificate, e quindi trasferibili, finiranno dove costa meno il lavoro che le usa.
La lavorazione a mano del cachemire non è codificata, allora resta dove c’è chi la sa fare. Se fosse codificata e meccanizzata, andrebbe a finire dove il lavoro applicativo costa meno.
La cosa importante è tenere qui le conoscenze generative ma allargare il loro uso in filiere globali.

Ma quali sono le condizioni affinché tutto questo accada?

Innanzitutto, il ricambio degli uomini: giovani ma intraprendenti, che capiscano che il futuro del lavoro è nell'autonomia, nel prendersi dei rischi e nel fare investimenti professionali importanti. Capaci di coltivare quella intelligenza generativa che ti rende prezioso sia in un’azienda sia in una filiera più grande.
Questa intelligenza si sviluppa anche a scuola, in tanti modi, si sviluppa sfruttando anche le abilità dei giovani. Per esempio, l’uso della informatica e la capacità di viaggiare nel mondo: oggi due risorse essenziali per le aziende, che sono proprie più dei giovani che dei loro padri e dei loro nonni, che oggi sono occupati in azienda.
I giovani, in questo ricambio, hanno una funzione strategica. Ma attenzione: questa cosa non si può certo inventare sui libri, a tavolino. Occorrono degli innovatori capaci di trainare gli altri e di far fare a loro delle esperienze. Non serve imparare in astratto, occorre imparare al traino di innovatori. E' quindi fondamentale la funzione delle aziende leader di filiera, come quella che è stata citata prima che educa i subfornitori e che li sollecita ad imparare a fare certe cose che dopo verranno valorizzate.
Naturalmente, non basta fare questo ricambio degli uomini al traino degli innovatori: bisogna anche in qualche modo che questi uomini sappiano sfruttare le due grandi onde che stanno portando avanti il mondo nuovo, cioè sappiano sfruttare il potere della globalizzazione e il potere dell’immateriale. E per fare questo, ovviamente, servono una serie di cose.
La prima cosa che serve è un investimento nei linguaggi formali. Oggi la pratica non può più essere separata dalla capacità concettuale di rendere in astratto quello che stai facendo, perché non sempre quello che stai facendo lo puoi mettere in un prodotto, come il cashmere e poi portare il cashmere in quanto tale nel mondo. Occorre comunque la tracciabilità del prodotto che è un fatto codificato,  qualcosa che devi imparare con un linguaggio astratto, che devi esprimere in linguaggio astratto. Le aziende del cashmere hanno creato un chip con tutta una serie di documentazioni. Ma ad esempio, nel caso un’azienda meccanica,  devi spiegare che il tuo prodotto è diverso da un altro, devi avere un ingegnere che ti fa la specifica del perché è diverso e che spieghi tutto ciò a chi sta in Canada o in Cina, altrimenti non sarai riconoscibile.
Quindi per essere riconoscibile e per parlare agli altri serve sì la tracciabilità, il legame fisico col territorio, ma serve altresì la capacità del linguaggio formale che lo rende riconoscibile agli altri. E i linguaggi formali si imparano a scuola non nella pratica, oppure si imparano in una scuola-bottega  ma serve un investimento concettuale.
Tutta questa roba non si fa da soli: noi dobbiamo creare le reti d’impresa, perché le reti d’impresa, sia nelle grandi che nelle prime imprese, sono il modo di rendere possibile l’intelligenza delle singole unità. L’intelligenza personale gestisce la complessità, ma insieme fare l’economia di scala dello stare insieme, del lavorare insieme, del dividersi il lavoro, del far sì che la tua competenza si sommi a quelle degli altri, perché ognuno si può specializzare in una branca diversa, ma può sempre contare sull’intelligenza dell'altro.
Di conseguenza, la costruzione delle reti d’impresa è essenziale per chi sta in questo nuovo mondo. Purtroppo il calabrone dell'esempio figurato che abbiamo usato oggi, ci ha abituato all’idea che l’individualismo basta e avanza. Non è così. Bastava ed avanzava quando c'era il vento che faceva volare il calabrone che non sapeva nemmeno perché volasse.
Controvento non si vola. E allora questo individualismo va superato. È un fatto di cultura, di incentivi, di iniziative. E' un fatto di responsabilità delle imprese più grandi che devono farsi carico di promuovere questa rivoluzione culturale.
Se facciamo queste cose, c'è un futuro per l'impresa personale. Dobbiamo solo fare un salto di qualità nel capire che il mondo nuovo ci chiede delle cose diverse dal passato.