Per una valorizzazione dei mestieri artigiani e delle abilità manuali. Verso il futuro, innovando

A cura di Federico Fioravanti

Intervento di Roberto Giannangeli

direttore CNA provincia Perugia

Cambiare per avere un futuro artigiano che sia insieme locale e globale.


Se torniamo all’immagine dei calabroni, per una serie di motivi i calabroni in questo momento non hanno più le ali. E i motivi per i quali le ali non ci sono più sono stati elencati nell'introduzione a questo nostro forum: il fisco non è al 52 per cento ma, secondo le nostre analisi, ha superato il 68 per cento e con la Tares che verrà introdotta quest’anno, si arriverà a dei livelli ancora più alti.
La burocrazia è asfissiante: si parla di almeno 150 adempimenti burocratici ai quali le imprese artigiane sono costrette a sottostare nell’arco di un anno. Non affronto il tema del credito, perché tutti gli artigiani lo vivono in prima persona.
Condivido quello che dice il professor Rullani: c'è un futuro per il mondo dell'impresa artigiana. O meglio ci può essere un futuro se poi esistono delle condizioni generali che permettono alle imprese di continuare a stare in piedi.
Una delle prime necessità che abbiamo oggi è quella di un governo stabile, che torni a dare fiducia al sistema imprenditoriale. C'è poi il tema della crescita. Ci stiamo tutti piangendo addosso ma i problemi sono molteplici. Bisogna iniziare ad affrontarli, possibilmente partendo dall’autocritica: è necessario che la facciano gli artigiani, che necessariamente dovranno cambiare, stanno cercando di cambiare e in molti casi sono già cambiati.
Ma questa autocritica deve coinvolgere le associazioni di categoria, i partiti politici, la pubblica amministrazione, il mondo della scuola e quello della università.
Io penso che il "saper fare" sia non solo un patrimonio dell’Italia e delle imprese artigiane ma un patrimonio dell’industria italiana. Il saper fare è un elemento che coniuga e differenzia il sistema produttivo italiano dagli altri sistemi. Noi, nonostante la crisi, nonostante negli ultimi cinque anni si sia perso circa il 25 del volume produttivo, continuiamo a essere uno dei principali Paesi manifatturieri di Europa. E quindi ci fa ben sperare perché, nonostante la mancanza di riforme, nonostante un fisco asfissiante e tutta un'altra serie di problemi che ci portiamo addosso, fino ad oggi le imprese italiane sono riuscite a resistere. Molte, in questa fase storica sono però agli sgoccioli. In Umbria chiude una impresa artigiana al giorno e in Italia chiude una impresa al minuto. Non parliamo solo di imprese artigiane ma di tutto il sistema imprenditoriale.
Però tornando al saper fare, questo è l’elemento di fondo che ci ha contraddistinto dagli anni Sessanta in poi, come ricordava prima Rullani. Il saper fare proprio degli artigiani è proprio anche delle medie imprese, che oggi rappresentano i campioni del mercato internazionale. Molte di quelle che oggi sono medie imprese sono nate come imprese artigiane, e molti degli imprenditori medi, i grandi imprenditori italiani sono partiti da zero, puntando sulle loro capacità, sulle loro capacità professionali, sulle competenze che hanno acquisito facendo il proprio lavoro. Non sono stati altri i percorsi seguiti per la gran parte dei nostri imprenditori, indipendentemente dalla dimensione aziendale.
Di conseguenza, se il saper fare è un elemento distintivo, la prima cosa sulla quale dobbiamo lavorare è prendere coscienza del valore di questa nostra "cultura del fare", cercare di riposizionarla in un mercato che è comunque cambiato, come ricordava il professore, per la smaterializzazione e la globalizzazione del lavoro.

Da dove bisogna ripartire?

Il punto di partenza, a nostro avviso, è la scuola. Prima di tutto va ridefinito il rapporto tra il mondo del lavoro e quello della scuola. Su questo tema cruciale siamo già intervenuti nei mesi scorsi, ponendo sul tavolo alcuni progetti che speriamo siano un elemento importante di riflessione. Dobbiamo capirte che se non riusciamo a sviluppare una forte contaminazione tra il mondo della scuola e il mondo dell’impresa, difficilmente, in un processo di smaterializzazione, riusciamo a recuperare quelle competenze che poi sono l’elemento che contraddistingue il Made in Italy. Penso al settore tessile: il tessile in Umbria non è entrato in crisi dal 2008, nel momento della grande crisi che ancora ci attanaglia, ma dal 2001, da quando c’è stato l’ingresso della Cina nel WTO.  La concorrenza della Cina ha comportato lo spostamento delle produzioni in serie. Molte imprese non ce l'hanno fatta. Ma quelle che hanno resistito ,si sono trasformate essenzialmente in  aziende di servizi, aziende di servizio della produzione.
Perché questo è avvenuto? Alcuni imprenditori si sono specializzati nello sviluppo dei campionari, altri sono diventati dei modellisti. Ma tutti quelli che ce l’hanno fatta ci dicono una cosa: siamo riusciti a resistere perché siamo tornati a mettere in campo le conoscenze che abbiamo acquisito trent’anni, quarant’anni fa, utilizzando le nuove tecnologie, i nuovi strumenti, i nuovi telai, e quant’altro. Questi imprenditori, adoperando le conoscenze del "saper fare" acquisite tanti anni fa, si sono riposizionati sul mercato e le loro aziende si sono trasformate in imprese di servizio  per aziende importanti che producono grandi lotti. Qui da noi si realizzano piccoli lotti e campionari ma le grandi produzioni non ci sono più.
La stessa cosa è successa nella meccanica, anche se il percorso è stato diverso. Ma nella meccanica, unendo l’innovazione tecnologica con la grande flessibilità della piccola azienda, che in alcuni casi è divenuta anche media, si sono sviluppati dei network di aziende che lavorano per i più grandi players a livello internazionale.
Ma penso anche al settore dell’arredo casa. Anche lì la crisi è arrivata dieci anni fa. E poi la ceramica dove alcuni sono rimasti fermi e molti altri hanno puntato sull’internazionalizzazione, con una scelta di campo decisa, sapendo che in giro per il mondo si vende ciò che interessa ai consumatori, per cui è difficile vendere i prodotti che si facevano quarant’anni fa ed è quindi  molto più facile entrare nella cultura dei vari Paesi e vendere i prodotti che poi in quei Paesi ci chiedono.
Allora contaminiamo il mondo della scuola con quello del lavoro. Ma dobbiamo rilanciare l'artigianato anche puntando al digitale. Il commercio elettronico, la grande rete globale che abbatte le distanze, può rappresentare un valido strumento per riavvicinare il mondo della piccola impresa ai consumatori finali, indipendentemente dai luoghi in cui essi si trovino.

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Il vento dello sviluppo tira da altre parti. Per trovare spazio sui mercati va abbandonato l'individualismo: bisogna imparare a lavorare in squadra.

GIANNANGELI  La Cna negli ultimi dieci anni ha promosso almeno venti iniziative di aggregazione. Solo l'anno scorso sono nate cinque nuove aziende di questo tipo. Quella delle reti è una delle strade per far ripartire lo sviluppo ma non l'unica. La nostra è una delle poche regioni  nelle quali gli artigiani si sono messi insieme utilizzando il contratto di rete, che è uno strumento pensato per altre realtà imprenditoriali. Se quella è una strada, non può essere l’unica, perché si scontra con l’individualismo, perché si scontra con tanti fattori ostativi, anche se è una strada importante sulla quale noi puntiamo in maniera forte.
Per quanto riguarda l’esempio che facevo prima sul tessile, non penso che quello che ho detto sia in contraddizione con quello che esprimeva Mirabassi. Facevo solo un esempio.
Penso che quello che paghi sia la qualità. Abbiamo sostenuto, condiviso e accolto favorevolmente le scelte fatte da alcune medie imprese nel settore tessile. Ci auguriamo che siano molte di più le piccole imprese che riescano a sviluppare un marchio proprio ed affrontino la sfida del mercato globale.  Anche perché quelle che lavorano in subfornitura, anche se hanno lavoro assicurato, comunque soffrono dei problemi di fondo, burocratici e fiscali. Penso all'Irap, per dirne una.
Guardo i giovani presenti in sala per un'altra riflessione. La domanda che mi pongo è la seguente: perché un giovane, che magari ama l’informatica, dovrebbe andare a lavorare in una piccola e media impresa di produzione?
Molto spesso il lavoro, soprattutto nelle piccole imprese, non è attraente. Ci sono delle eccezioni come Cucinelli. Ma in Umbria non è un esempio facilmente replicabile, per cui se togliamo le grandi eccellenze sopra e tagliamo le ali, verso l’alto e verso il basso, noi abbiamo dei giovani che, anche se hanno studiato, fatto ingegneria e quant’altro, oggi vanno in un’azienda di produzione e come prospettiva potranno guadagnare 1.200-1.300-1.400 euro al mese.
La domanda che ne consegue: perché dovrei andare a lavorare lì? E perché un giovane che, dopo che ha fatto tanti sacrifici, si dovrebbe mettere a fare l’imprenditore? Mi metto a fare l’imprenditore e poi torno sempre all’inizio. Quando apro un'azienda incontro le difficoltà a raffica di cui parlavamo prima e poi tutta una serie di imposizioni più o meno dirette mi costringono a lavorare almeno sei mesi all’anno per lo Stato. Così l’imprenditorialità non viene spinta. E questi sono i problemi dai quali dobbiamo partire perché la realtà è che noi in Umbria abbiamo 24.000 artigiani su 60.000 imprese. Il trenta per cento delle imprese e se guardiamo le imprese attive, i dati cambiano perché il 90-95 per cento delle imprese ha meno di 9 addetti.
Servono politiche ad hoc per queste piccole imprese del centro storico, della ceramica di Deruta o di altre aree della provincia di Perugia. Non possiamo pensare che solo alcuni grandi campioni riusciranno a trainare gli altri.  Noi speriamo che ci sia un numero, il più alto possibile, di campioni capaci di trainare un pezzo della nostra economia ma poi c'è un altro pezzo che non può essere trascinato dai campioni. E allora sono necessarie delle politiche che possiamo definire strabiche, che guardino in più direzioni: da un lato orientate a far crescere le medie imprese che magari possono trainare filiere e cluster, dall'altro che pensino alle piccole imprese perché le intelligenze che prima citava il professor Ferrucci, sono anche in tante piccole imprese ma hanno difficoltà ad emergere senza l'aiuto di strumenti adeguati. Per cui credo che sia necessarie politiche industriali diverse, a seconda delle tipologie di impresa e delle dimensioni delle aziende.
MIRABASSI Ma con un ragionamento del genere cosa comunichiamo ai giovani? Che speranza diamo? Lei chiede perché dovrebbero andare a lavorare nel settore tessile per guadagnare 1200 euro? Perché, scusi, l'alternativa qual è?
GIANNANGELI Le spiego meglio il mio ragionamento. Se una persona costa 3.000 euro a un’azienda e poi percepisce 1.200 euro, sono scontenti in due: l’azienda che deve pagare i 3.000 euro ed il lavoratore che va in azienda a lavorare a 1.200 euro al mese. Il mio era un ragionamento sul costo del lavoro, pensavo di essere stato chiaro.
MIRABASSI No, non è stato chiaro, ma comunque sia il costo del lavoro è uguale per tutti, non è solamente nel tessile o nell’artigiano, vale in tutti i settori, anche se va a fare l’addetto al call center. Ma se questo è il messaggio, è chiaro che i giovani non vengono a lavorare.
Vorrei dire ai ragazzi che oggi sono qui con noi: sapete come si diventa capi reparto, direttori di produzione, tecniche di maglieria? Partendo da zero, lavorando, facendo sacrifici, imparando un mestiere e mettendoci il proprio valore, che è la testa. Non si può pretendere che un laureato inizia lavorare ed abbia subito un ruolo direttivo. Non funziona così.
Noi dobbiamo comunicare ai giovani che per ottenere risultati bisogna fare sacrifici, bisogna metterci la testa, l’intelligenza, la passione e il cuore. Il cuore! E se non cominciamo mai a lavorare, a fare le cose semplici, non possiamo progredire.
Negli ultimi otto mesi, sono stato più giorni all’estero che in Italia e mi sto rendendo conto che anche nei Paesi di grande sviluppo c’è un ritorno alle cose vere. Rimettiamo davanti le cose vere: la qualità del lavoro, l’onestà, la professionalità, l’artigianalità! Queste cose le dobbiamo rimettere avanti, sennò parliamo e basta. Si tornerà indietro riprogettando il futuro, rimettendo alla base di tutto la qualità e l'intelligenza, i valori ai quali prima accennava il professor Ferrucci.
Ripartiamo dalla semplicità. Parliamo ai giovani, facciamoli lavorare insieme a noi, perché loro sono più bravi di noi. Uniamo la loro intelligenza e la loro velocità con la nostra esperienza. Ricordo un detto che non dovremmo mai dimenticare: se pretendiamo che le cose cambino, continuando a fare le stesse cose alla stessa maniera di sempre, non arriveremo mai da nessuna parte.