ARTE, MUSICA & CULTURA

31 marzo 2011

C’è anche l’arte del riciclo

di Francesca Duranti

C’è un’arte nel realizzare il riciclo, dunque si può parlare di riciclo come forma d’arte. Affermazioni che ultimamente vengono spesso utilizzate con largo favore, crescendo finalmente fra la gente la consapevolezza per i problemi ambientali, mentre anche gli artisti: pittori, scultori, designer – in verità non da adesso, ma forse più diffusamente – si applicano a questa opportunità di cercare il bello anche nell’apparente brutto. Si portano, al riguardo, alcuni esempi in questo periodo: quello del fotografo e artista brasiliano Vik Muniz che è riuscito a ricavare opere d’arte dalla immondizia assemblando gli scarti e i rifiuti della più grande discarica del mondo, e quello di Michelangelo Pistoletto, noto artista italiano che si presenta in queste settimane a Roma con una mostra personale dedicata anche all’arte del riciclo. Non solo specchi, ma vecchi frigoriferi, elettrodomestici non più funzionanti, rifiuti di ogni genere e materiali vari acquistano una nuova immagine, una nuova vita, come rivelano alcune delle opere esposte al museo MAXXI della Capitale. Con lui assumono forme originali ed inedite e allo stesso tempo celebrano l’arte di tutti i tempi, come a voler dire che i rifiuti della nostra società consumistica servono anche a fissare l’arte. Il Novecento del resto ebbe un legame forte tra l’idea del bello e quella che era stato il suo contrario, una cosa cioè che non aveva più ragione d’esistere, dunque un rifiuto. Storicamente, il rapporto fra arte e rifiuti si costruisce col recupero di oggetti di scarto (stracci, frammenti, ritagli) sprovvisti di alcun valore. Momento di passaggio topico nella storia dell’arte è l’operazione di riciclo, che allora non si definiva così, compiuta da Marcel Duchamp con opere come lo Scolabottiglie del 1914 e l’Orinatoio del 1917 intitolato Fountain. È il Ready made che rivoluziono l’espressività. Mentre in De Chirico e nei surrealisti questa visione si “storicizza”, rappresentando frantumi di memoria e resti del mito (pensiamo ai Manichini con frammenti architettonici). Negli anni Sessanta troviamo in America Rauschenberg e Johns, cultori del rifiuto, addirittura esegeti della poetica della discarica, creando assembramenti informi di stracci, cartoni, plastica e lamiere, in particolare queste ultime il francese César. Cicli e ricicli degli oggetti usati dall’uomo, rottamazioni, riuso o definitiva demolizione in discariche sempre più gigantesche, spaventose, dove rottame diventa esso stesso opera d’arte. A seguito di questo preambolo panoramico nel tempo e nei vari paesi, è interessante andare a vedere quello che al riguardo hanno prodotto gli artisti della nostra regione. Come hanno praticato l’arte del riciclo in forma di “mezzo” espressivo o nell’ambito del “riutilizzo” come medium di seconda vita dell’oggetto, in linea con le tendenze eco sostenibili, più vicine al design che alle arti visive. In Umbria, capofila dell’estetica del riciclo non può essere considerato altri che Brajo Fuso (Perugia, 1899 – 1980) artista perugino che si accostò all’arte nel 1945, apprezzato dalla critica internazionale, vantando attenzioni da parte degli storici dell’arte più accreditati, come Argan, che trovò il suo stile nella cosiddetta Debrisart o Arte del Rottame. Ogni tipo di materiale povero o di recupero come tubi, piatti, pinze, ferro, parti di automobili, vetro, ceramica e molto altro ancora, sono stati utilizzati da questo artista per raccontare il mondo e le favole plasmando, sperimentando, rimodellando o addirittura precorrendo idee e tecniche riprese poi da importanti artisti europei. Esiste uno spazio chiuso-aperto alla periferia di Perugia, in quel di Monte Malbe dove è possibile immergersi tra le opere di Fuso, il Fuseum, un parco abitato da strani personaggi fatti di materiali di scarto, animati dalla fantasia creatrice dell’artista, un posto magico che ha trovato nel rottame il mezzo ludico per rendere questo luogo unico nel suo genere. Ma ci sono altri artisti scomparsi e viventi, anche giovanissimi, che trovano nell’estetica del recupero il loro medium espressivo. Osmida, ad esempio, artista perugina scomparsa dieci anni fa, concettuale di altissimo livello, si è mantenuta sempre in disparte dal sistema dell’arte per maturare un proprio efficacissimo stile. Nelle sue opere tutto è calibrato nella ricerca dell’equilibrio formale, cromatico e materico dato dall’utilizzo di materiale industriale di scarto come gomme, carte catramate da imballaggio, cemento, amianto, che utilizzava graffiando, squarciando e strappandone la superficie. Un giovane artista di Umbertide da alcuni anni, invece, sta lavorando al recupero concettuale di materiali e abiti dismessi. Stefano Errighi, solidifica, ingessa, vetrifica e smalta camicie usate e altri indumenti in giacenza nel guardaroba dandogli una valenza scultorea, congelandoli o pietrificandoli con procedimenti chimici, meglio dire alchemici, di sua invenzione. Gli abiti usati raccontano una vita ferma, immobile perché solidificata, ingessata, vetrificata, smaltata. Ciò che c’è di effimero dietro una vecchio impermeabile è schiacciato dalla potenza della vita di chi l’ha indossato. I suoi rilievi scultorei si sono evoluti stilisticamente e contenutisticamente negli anni evolvendosi la sua ricerca da indumenti comuni a quelli pregiati per tessuto e per creatività, come nel caso del vintage d’alta moda. Il confine e l’interazione tra arte e design nel linguaggio contemporaneo del recupero diviene sempre più sottile; i due mondi spesso si intrecciano dando vita a forme espressive particolarissime e di estrema attualità. Ne sono esempio gli innumerevoli blog dedicati al mondo del riciclo, nemici giurati dell’Ikea, che al taglio indiscriminato di alberi contrappongono mobili di design ricavati dal cartone, dalla plastica, dalle cassette per la frutta, da pezzi di vecchi elettrodomestici, dalle lattine delle conserve. In Umbria esiste da qualche anno un marchio che si è messo al passo con questo tipo di esigenza estetico/etica progettando complementi d’arredo raffinati e di grande originalità. Il marchio B-Trade è nato dall’esperienza dell’Azienda Benedetti, che da anni si occupa di packaging in cartone ondulato. Dal riciclo dei rifiuti di carta e cartone, nascono creazioni artigianali dove ogni prodotto è un pezzo unico, immaginato nella propria collocazione, studiato e ricercato per essere alla portata di tutti, infatti anche il prezzo è assolutamente interessante per la povertà della materia prima utilizzata. C’è chi invece ha messo in gioco la propria esperienza pluriennale di artigianato ad altissimo livello per ridare vita a mobili di arte povera che invadono case e rigattieri, tipici dell’arredamento lowcost anni Cinquanta e Sessanta, per creare pezzi d’arte unici di gusto futurista/costruttivista di altissimo pregio. La ditta Legno & Colore di Città di Castello produce da anni questi mobili per grandi committenti, ma ha voluto estendere la propria professionalità, appunto, ad una filosofia del riciclo in linea con i tempi ricreando mobilio nuovo dal vecchio di rara bellezza. Ci sono infine due stilisti di moda che operano in Umbria, vendendo e proponendo il loro marchio a livello internazionale e che hanno alla base della loro ricerca l’utilizzo di materiali di recupero in forme diverse. In effetti, la ricerca sulla materia è la filosofia del brand italiano di Luca Laurini Label Under Costruction, attivo nella periferia di Perugia, che analizza le potenzialità della più classica struttura a maglia o dei più impensabili tessuti di recupero, per renderli materiale vivo, originalissimo, creato conseguentemente ad un lungo processo di sperimentazione chimica e concettuale. I suoi capi sono studiati nel dettaglio, ogni collezione parte da un’ispirazione concettuale e materiale insieme e i pezzi unici prodotti sono il frutto di lunghe ricerche di tessuti vintage lavati, adattati, cuciti per risorgere a nuova vita in forme del tutto originali. Il marchio Label Under Costruction è conosciuto negli ambienti più ricercati della moda internazionale e venduto negli atelier più sofisticati da New York a Berlino. La designer, Cinzia Verni, di Perugia, invece, crea abitiscultura attraverso un irrefrenabile gioco alchemico in cui recupera cose vecchie e abbandonate per trasformarle tramite una miscellanea di carta, fiori, bacche, muschi, foglie, organze e tele antiche. Il risultato è fuori dagli schemi: opere originali, indossare per sedurre il tatto, la vista e l’olfatto. Questi abiti scultorei della Verni sono intrisi di tracce di sarti del passato, avendo giovanissima collaborato con il grande stilista romano Alberto Fabiani, e raccontano la tradizione del modellamento della materia imprimendole nuove forme, leggere e impalpabili, nate per una donna-bambina visionaria, futuristica, che ha continua voglia di rinnovarsi.