STUDI E RICERCHE

31 dicembre 2011

Credito, banche e imprese in Italia e in Umbria durante la crisi

di Loris Nadotti

Nell’indagare le cause dello scenario di crisi che ha caratterizzato il sistema economico e finanziario, a livello nazionale e globale, negli ultimi due anni, la prima riflessione che si è impone riguarda l’importanza, per non dire la necessità, di un corretto ed efficiente funzionamento del mercato dei capitali. Le preoccupanti conseguenze della sottovalutazione dei rischi insiti nell’incapacità di una parte del mercato stesso nel disporre e nel gestire le informazioni hanno, infatti, riportato all’attenzione di osservatori scientifici ed operatori il tema della distribuzione asimmetrica delle informazioni, quale elemento di disturbo nell’estrinsecarsi degli scambi nel mercato finanziario e nella corretta allocazione delle risorse disponibili in maniera limitata. A dipendere dai flussi di risorse che si muovono nel mercato finanziario, e quindi dall’efficienza dello stesso nel selezionare correttamente le differenti opportunità allocative non è solo la possibilità di finanziamento delle iniziative imprenditoriali, ma anche la fiducia e l’orientamento degli investitori nella destinazione del risparmio. La recente situazione di crisi e recessione ha portato alla luce un fenomeno, affermatosi negli ultimi tre decenni nei principali Paesi del western world, di pericolosa dissociazione dell’attività dei mercati finanziari dal loro ruolo istituzionale di canale utile alla corretta allocazione delle risorse. (1) E tale frattura è stata per lo più causata dal differenziale informativo che si è con il tempo accresciuto tra datori e prenditori di fondi, fino ad arrivare a rappresentare un’insanabile spaccatura nel funzionamento dell’intero sistema. La scarsa trasparenza informativa ostacola il trasferimento diretto di risorse nel mercato finanziario. Il fatto che l’informazione sia non solo costosa, mai totale, completa ed esauriente, ma anche distribuita asimmetricamente tra i due potenziali contraenti da un lato incrementa l’onerosità dello scambio, dato che i prezzi che si formano non sono significativi, e dall’altro induce le parti a sovrastimare il grado di rischio attribuito ai singoli progetti da finanziare. Gli intermediari sono così chiamati ad assolvere il fondamentale ruolo di “ponte” tra economia reale e scelte finanziarie. L’eccessiva esposizione al rischio che gli operatori del mercato hanno assunto alla ricerca di alti rendimenti, mediante posizioni strutturate esuli dalla tradizionale operatività in raccolta ed impiego, e i loro successivi comportamenti hanno accentuato gli effetti delle inefficienze causate dalle asimmetrie informative in essere. L’obiettivo di tale riflessione è quello di tentare una lettura della recente situazione finanziaria e dell’attuale rapporto tra attori del mercato creditizio alla luce delle nuove tendenze evolutive nel comportamento dei mercati e degli intermediari, così come influenzate anche dai più recenti provvedimenti normativi. Sono almeno due gli aspetti fondamentali che caratterizzano il tema credito, vale a dire la quantità e il rischio: l’intermediario creditizio, infatti, non deve solo considerare l’ammontare delle risorse (e, quindi, l’incremento di potere d’acquisto) che concede al debitore, ma anche attribuire una misura al rischio della singola posizione, tenendo conto del profilo personale del debitore stesso, della finalità dell’acquisizione delle risorse e delle modalità di utilizzo delle somme erogate. Il credito viene, così, a configurarsi come un prodotto “multidimensionale”, nel quale si compongono diversi e disomogenei profili; ed è proprio tale sua peculiarità, anche a prescindere dalle problematiche che scaturiscono dall’asimmetria informativa, a provocare imperfezioni nel mercato in cui viene scambiato. (2) In via generale, riassumendo tutte le considerazioni finora espresse, si raggiunge una qualità di efficienza nel mercato del credito, ponendosi nell’ottica dell’intermediario, qualora si abbiano a disposizione e si possano adeguatamente elaborare tutte le informazioni necessarie a giungere ad una corretta analisi della capacità del debitore di far fronte agli impegni finanziari assunti e, pertanto, a pervenire ad una valida definizione del rischio insito in una data operazione e del prezzo remunerativo di tale rischio, vale a dire del relativo tasso di rendimento atteso. Dal quadro che si è finora tratteggiato è ben evidente come, oggi più che in passato, la comunicazione e la corretta informazione tra datori di fondi, da una parte, e famiglie ed imprese, dall’altra, sia elemento cruciale al fine del raggiungimento di maggiori livelli di efficienza allocativa nei processi di trasferimento delle risorse. La funzione di perno attraverso cui rifondare il rapporto tra banca e impresa, tuttavia, è stata attribuita al tema dell’informazione dalla concomitanza di più elementi: in primis, i processi di riorganizzazione degli intermediari si sono recentemente mossi verso una crescente concentrazione; la riduzione dei margini di redditività ha poi comportato un ampliamento della gamma dei servizi finanziari e di consulenza offerti; in ultimo, sebbene non per ordine di importanza, i recenti indirizzi normativi in tema di vigilanza si sono orientati in misura maggiore a pesare la qualità degli intermediari sulla base delle performance raggiunte. L’evoluzione a cui si è assistito in materia di requisiti patrimoniali richiesti agli istituti di credito e la crescente attenzione rivolta da parte delle autorità di vigilanza alla relazione tra mezzi propri e rischi dell’attività bancaria stanno, in misura determinante, incentivando il ricorso ad un’ampia base informativa, che consenta, dal lato della domanda, un’analisi più puntuale delle esigenze dei prenditori di fondi e, dal lato dell’offerta, l’individuazione di strumenti con i quali soddisfare i bisogni di finanziamento di famiglie e imprese. In sostanza, qualità e quantità delle informazioni richieste dalla banca al fine di giungere ad una corretta valutazione del merito creditizio della controparte sono rimaste pressoché immutate nel corso degli ultimi anni; ciò che è cambiato sono le metodologie e le tecniche di indagine e l’attenzione che si pone nei confronti di alcuni aspetti della gestione aziendale, in primis dei rischi tipici imprenditoriali, i quali venivano in passato valutati con minore attenzione nei loro tratti definitori.

 

Credito e piccole imprese

La struttura produttiva italiana è, come noto, caratterizzata da un elevato numero di piccole imprese, la cui dimensione media (pari a 4 addetti circa) è assolutamente bassa se confrontata con quella di altri paesi industrializzati. Tale fisionomia riflette l’elevata incidenza delle imprese individuali, costituite da lavoratori autonomi, commercianti e liberi professionisti, ed incide profondamente sulla struttura finanziaria delle attività produttive. Dati della Banca d’Italia riferiti al 2009 mostrano come il grado di indebitamento delle nostre imprese permanga su livelli elevati rispetto al passato: le imprese italiane, fortemente esposte ad eventuali incrementi dei tassi di mercato, presentano un leverage, intorno al 46%, di quattro punti percentuali inferiore rispetto a quello della Spagna, in linea con la Germania e il Regno Unito, e più elevato di circa dieci punti rispetto alla Francia e agli Stati Uniti. Il rapporto tra debito finanziario complessivo delle imprese e PIL, a fine 2009 pari all’83%, rimane contenuto nel confronto internazionale; il debito delle nostre imprese, tuttavia, si caratterizza, rispetto a gli altri paesi, per la più elevata quota di finanziamenti a breve termine e per la maggiore dipendenza dal credito bancario, e ciò è tipico, come risulta dai dati della Centrale dei Bilanci, per le imprese di minori dimensioni, che – valutando tale prestito più flessibile ed accessibile – sono più esposte ai rischi connessi ad un innalzamento dei tassi di interesse. In generale, le piccole imprese soffrono di maggiori difficoltà nell’accesso al mercato del credito bancario, a motivo della loro ridotta “appetibilità”, in termini sia qualitativi che quantitativi, rispetto a quelle più strutturate e di maggiori dimensioni, e sono per questo soggette ad oneri finanziari mediamente più elevati e ad una minore sicurezza nella disponibilità di fonti di finanziamento. Esistono di frequente, in tale comparto, difficoltà e disparità di trattamento nell’ottenimento del credito cosiddetto “di fornitura”, le quali tendono a favorire ulteriormente il fabbisogno di capitali a breve. Sussistono difficoltà di accesso a specifiche fonti di finanziamento, a causa delle carenze nel modello di governance e/o delle ridotte dimensioni, soprattutto per le aziende che, lavorando esclusivamente o in prevalenza quali contoterziste, non presentano condizioni di equilibrio stabili e durevoli nel tempo. E il ricorso all’autofinanziamento, accanto all’utilizzo del credito bancario, quale principale fonte di copertura degli investimenti, costituisce un vincolo, in maniera particolare nei periodi di congiuntura negativa, e tende a generare effetti prociclici. Accanto a ciò, nelle piccole imprese la funzione finanza viene generalmente considerata “di servizio” piuttosto che “di gestione” ed è, sovente, poco specializzata. In particolare, sono spesso trascurate la gestione corrente dei rapporti con i finanziatori, la previsione a breve-medio termine dell’evoluzione delle caratteristiche quali-quantitative del fabbisogno finanziario, nonché l’analisi delle alternative più convenienti sul mercato. In una situazione di assoluta mancanza di pianificazione dei flussi finanziari e di analisi dei costi-benefici di strumenti alternativi, il piccolo imprenditore accetta di solito senza sollevare alcuna perplessità il prodotto finanziario proposto dell’intermediario, anche quando questo sia dotato di un basso grado di personalizzazione e non sia, per questo, adeguatamente rispondente agli effettivi bisogni finanziari della controparte. Ed è prevalente, per il comparto in esame, il ricorso al credito erogato da intermediari bancari, tendenza questa che diminuisce al crescere delle dimensioni aziendali. In tale scenario, al fine di perseguire un’efficace gestione del rischio di credito, le banche hanno tentato la costruzione di portafogli prestiti estremamente frazionati, cercando di massimizzare il numero delle posizioni aperte e minimizzare il loro importo unitario. A livello sistemico, specie in passato, tale comportamento ha generato un’estrema frammentazione dei rapporti di affidamento ed ha costretto le imprese, alla ricerca della garanzia della massima disponibilità complessiva di risorse, a soddisfare i propri fabbisogni attraverso la costruzione di rapporti con un elevato numero di istituti di credito, seguendo quella prassi estremamente diffusa nel nostro Paese che va sotto il nome di pluriaffidamento. Aumentando l’esposizione del singolo cliente affidato nei confronti dell’intero sistema creditizio, si registra inevitabilmente un incremento esponenziale del numero degli interlocutori di natura bancaria (Figg. 1 e 2). Dal momento che il rimborso, anche in presenza di alcuni segnali di crisi dell’affidato, è in parte garantito dal maggiore utilizzo delle linee di credito aperte presso altri istituti, il rischio associato alla singola posizione, attraverso la pratica del multiaffidamento, è “spalmato” sull’intero sistema creditizio. Da un certo punto di vista, pertanto, il pluriaffidamento sembra rispondere alle esigenze sia delle aziende sia delle banche. D’altro canto, però, il frazionamento tra più banche del credito erogato comporta bassi importi unitari medi per ogni singola posizione, il che, essendo valutato dagli intermediari finanziari quale sintomo di contesti economici particolarmente rischiosi, rende a volte eccessivamente onerosa l’analisi approfondita delle caratteristiche dell’affidato, il quale è per questo motivo valutato, in maniera sbrigativa, soprattutto in relazione al patrimonio e alle garanzie che può prestare. Tale atteggiamento, unito ad una maggiore disponibilità delle banche ad operare con impieghi di breve periodo maggiormente controllabili e redditizi, ha fatto in modo che le imprese non fossero incoraggiate ad implementare un’adeguata funzione finanziaria e rimanessero ancorate all’utilizzo di crediti a breve termine o a scadenza indeterminata, anche per il finanziamento di investimenti con orizzonte temporale medio-lungo. La prassi del multiaffidamento è, inoltre, causa di perdita di informazioni riguardo la clientela, a motivo del frazionamento e della suddivisione di queste tra una pluralità di istituti di credito, cosa che ostacola più di ogni altra l’evoluzione dei rapporti banca-impresa verso modelli alternativi a quelli del credito ordinario. E l’opacità informativa delle aziende, causa in parte della difficoltà delle banche a valutare le stesse, si traduce in un maggior costo del debito (una sorta di premio per il rischio) nonché in una minore disponibilità ad erogare credito nelle fasi avverse del ciclo economico. Il persistere di tale fenomeno dimostra, tra l’altro, come la possibilità di una banca principale quale interlocutrice stabile per le imprese minori, sicuramente auspicabile per conseguire una gestione finanziaria efficiente, sia nella maggior parte dei casi difficile da realizzare. D’altra parte, può ben immaginarsi che la crescita della forza contrattuale che la piccola impresa, singolarmente considerata, potrebbe ottenere mediante la costituzione di uno stabile rapporto di clientela con una banca di fiducia si possa accompagnare agli effetti favorevoli, in termini di disponibilità e costo dei finanziamenti bancari, che vanno riconosciuti all’azione di organizzazione della domanda e di standardizzazione dei tassi di interesse svolta dagli organismi collettivi di garanzia fidi. Nell’ambito del rapporto tra un’impresa e il consorzio fidi cui essa si affida, infatti, il costo del credito è normalmente commisurato all’effettivo merito creditizio della controparte, che può essere più agevolmente definito all’interno degli stessi organismi. In tale scenario, analizzando la situazione dallo speculare lato della banca, il finanziamento delle piccole imprese comporta la valutazione delle loro capacità di rimborso e la necessità di praticare condizioni coerenti con il profilo di rischio stimato, e correlato alle caratteristiche del portafoglio prestiti e al rapporto rischio-rendimento ad esso associato. In base all’intensità dello scambio di informazioni e alla qualità di queste, variano le condizioni di accesso al credito, il grado di flessibilità del rapporto e il sostegno offerto alla gestione finanziaria dei debitori, soprattutto in presenza di difficoltà transitorie; per cui, il rapporto tra banca e impresa si ripercuote sull’efficienza allocativa e funzionale delle risorse e, quindi, sul contributo che il sistema finanziario può assicurare a quello produttivo. Recentemente, l’introduzione di una metodologia di classificazione della clientela fondata sulla rischiosità della stessa ha sostanzialmente modificato l’approccio seguito nella valutazione dei crediti; la fase di selezione, ad esempio, si concludeva in passato con un giudizio su scala binaria affidato/non affidato, mentre oggi si arriva sempre più frequentemente all’attribuzione di un rating, vale a dire un giudizio sintetico sulla probabilità di default correlata alla singola operazione, alla quale commisurare il tasso di interesse, ovvero il prezzo del credito. Ogni posizione di cui la banca si fa carico, infatti, deve trovare riscontro nel suo rendimento atteso, nonché evidenziare il rapporto diretto che intercorre tra rischio e tasso di interesse. Il grado di approfondimento dell’analisi ed il suo livello di dettaglio variano, come è naturale, in funzione dell’ammontare del finanziamento richiesto; è per questa ragione che prestiti di ammontare circoscritto non si combinano bene con indagini molto accurate, essendo il costo dell’istruttoria troppo elevato in confronto al corrispondente beneficio atteso in termini di riduzione del rischio. È così che, al ridursi dell’ammontare di risorse erogate, si riscontra frequentemente una standardizzazione nelle procedure di analisi, come, ad esempio, quella del credit scoring, che permettono di valutare rapidamente e senza costi eccessivi l’affidabilità del richiedente. Le valutazioni soggettive, tendenzialmente basate su considerazioni di carattere qualitativo, legate alla sensibilità e all’esperienza del singolo, hanno lasciato spazio ad un maggiore rigore formale e ad una crescente standardizzazione delle procedure. Le nuove metodologie statistiche e quantitative di misurazione del rischio hanno guadagnato un’importanza sempre maggiore e le scelte strategiche in tema di concessione del credito sono con frequenza crescente orientate dai modelli di rating e dai risultati in termini di solvibilità delle posizioni creditorie che da questi discendono. La valutazione del merito creditizio della singola controparte può, poi, essere influenzata dalla presenza di garanzie accessorie, tenendo ben presente che l’Accordo di Basilea stabilisce puntualmente le caratteristiche delle garanzie reali o personali ai fini del loro utilizzo, in riconoscimento della mitigazione del rischio, a riduzione del requisito patrimoniale richiesto alla banca, e quindi a contrazione del prezzo dell’operazione. La perdurante crisi finanziaria ha influenzato la relazione tra banche e imprese per quanto concerne due profili. In primo luogo, lo shock finanziario ha gravato pesantemente sui bilanci delle banche, le quali essendo tornate in maggioranza ad identificare il proprio core business nella raccolta del risparmio e nella concessione del credito e ad individuare nei prestiti concessi nel mercato al dettaglio il mezzo mediante il quale stabilizzare i propri livelli di redditività, sono state indotte dal deterioramento dei propri conti economici e dall’impoverimento della raccolta dei fondi dalla clientela ad adottare politiche più restrittive nella concessione del credito. D’altra parte, poi, la recessione delle attività reali seguita alla crisi ha peggiorato le condizioni di profittabilità delle imprese, rendendole più esposte al rischio di credito. Tali canali hanno dunque indotto, oltre al peggioramento delle condizioni di credito, anche un effettivo razionamento del credito stesso, vale a dire un aumento di imprese che non hanno ricevuto il finanziamento richiesto. La restrizione creditizia (o credit crunch) è stata definita dal Council of Economic Advisors (3) come “una situazione in cui l’offerta di credito viene ristretta al di sotto del livello solitamente associato ai tassi di interesse di mercato prevalenti e al livello corrente di profittabilità dei progetti di investimento”. L’improvvisa riduzione della disponibilità di credito, indipendente dall’andamento dei tassi di interesse governati dalle banche centrali, danneggia l’efficiente funzionamento del mercato, riducendo i finanziamenti esterni alle imprese meritevoli, e limitandone così l’attività al di sotto del proprio potenziale quando non provocandone il fallimento. Per tutte le ragioni che si è fin qui cercato di sintetizzare, dipendendo quasi esclusivamente dal credito bancario come fonte di finanziamento esterna, le piccole e medie imprese sono le entità maggiormente danneggiate. Inoltre, l’introduzione di metodologie di classificazione della clientela bancaria fondate sulla sua rischiosità hanno notevolmente modificato l’approccio seguito nella valutazione dei crediti; la procedura di affidamento, ad esempio, si concludeva in passato con un giudizio su scala binaria affidato/non affidato, mentre oggi si arriva sempre più frequentemente all’attribuzione di un rating, vale a dire un giudizio sintetico sulla probabilità di insolvenza correlata alla singola operazione, alla quale commisurare il tasso di interesse, ovvero il prezzo del credito. Il grado di approfondimento dell’analisi ed il suo livello di dettaglio variano, come è naturale, in funzione dell’ammontare del finanziamento richiesto; è per questa ragione che prestiti di ammontare modesto non si combinano bene con indagini molto accurate, essendo il costo dell’istruttoria troppo elevato rispetto al corrispondente beneficio atteso in termini di riduzione del rischio. È così che, al ridursi dell’ammontare del finanziamento richiesto, si riscontra frequentemente una standardizzazione nelle procedure di analisi, come, ad esempio, quella del credit scoring, che permettono di valutare rapidamente e senza costi eccessivi l’affidabilità del richiedente. Le valutazioni soggettive, tendenzialmente basate su considerazioni di carattere qualitativo e legate alla sensibilità e all’esperienza del singolo, hanno lasciato spazio ad un maggiore rigore formale e ad una crescente standardizzazione delle procedure. La valutazione del merito creditizio della singola controparte può, poi, essere influenzata dalla presenza di garanzia accessorie, tenendo ben presente che l’Accordo di Basilea stabilisce puntualmente le caratteristiche delle garanzie reali o personali ai fini del loro utilizzo, in riconoscimento della mitigazione del rischio, a riduzione del requisito patrimoniale richiesto alla banca, e quindi a contrazione del prezzo dell’operazione. Dalla figura 4 si evince chiaramente come le imprese, a cavallo tra 2008 e 2009, abbiano manifestato una spiccata sofferenza nell’accedere al credito bancario, che si è andata, tuttavia, smorzando nei trimestri successivi. Segnali non positivi, tuttavia, sembrano potersi cogliere nei dati che riportano la percezione dell’ultimo trimestre del 2010: a fronte di un 80% di imprese intervistate che ha segnalato condizioni invariate, è risultata in tale periodo lievemente aumentata l’incidenza di chi ha riferito maggiori difficoltà di accesso ai prestiti (13,9% contro il 12,4% del trimestre precedente). Il giudizio, in tale lasso di tempo, è stato segnatamente severo da parte delle imprese più piccole, operanti nel settore dei servizi e nell’Italia centrale (Fig. 5). Secondo le imprese manifatturiere intervistate dall’ISAE, invece, le condizioni di accesso al mercato creditizio erano progressivamente peggiorate tra marzo e dicembre 2008, con un sostanziale raddoppio in tale periodo della quota di imprese che ha segnalato un irrigidimento delle condizioni di offerta (dal 22,2% al 43%). Nei servizi e nel commercio le preoccupazioni erano già segnalate all’inizio della rilevazione, alla fine del primo trimestre del 2008, e si sono mantenute elevate per tutto il corso di quell’anno (Fig. 6). Graduali, ma generalizzati, segnali di allentamento del razionamento del credito sono emersi, invece, in tutti i settori nel corso del 2009 e a gennaio del 2010, ultimo mese di disponibilità dei dati. In particolare, a inizio 2010, la quota di imprese che ha segnalato un aggravio delle condizioni è stata pari al 18,4% nel settore delle manifatture, al 14% in quello dei servizi e al 12,3% nel commercio. I dati ISAE consentono anche di distinguere tra razionamento in senso forte, vale a dire rifiuto esplicito di concessione del credito da parte della banca (che si abbia anche qualora l’impresa sia disposta a sopportare un aggravio delle condizioni generali di affidamento), e razionamento in senso debole, ovvero rifiuto da parte dell’impresa richiedente di accettare l’aggravio delle condizioni proposte dall’istituzione finanziaria. Come emerge dai grafici che compongono la figura 7, in tutti i comparti il razionamento è stato ed è, in genere, attribuibile principalmente ad un rifiuto esplicito da parte della banca. La crisi finanziaria, oltre a determinare un fenomeno di crunch, sembra, dai risultati che seguono, aver contribuito anche ad aggravare le condizioni di ottenimento del credito per le imprese che comunque sono riuscite ad ottenere il finanziamento, sebbene in questo caso la tendenza più recente sia verso un’attenuazione delle difficoltà (Fig. 8). Riguardo le motivazioni sottostanti l’aggravamento di tali condizioni, le rilevazioni sono molto diverse a seconda del settore di appartenenza delle imprese intervistate (Fig. 9). Il fatto, tuttavia, che una delle giustificazioni più ricorrenti sia l’aumento dei tassi di interesse sembra avvalorare la tesi per cui le banche, nonostante l’ampia disponibilità di fondi a loro vantaggio da parte delle banche centrali, abbiano non solo diminuito l’offerta ma anche aumentato il prezzo del denaro. Finora ci si è occupati dei prenditori di fondi e della loro percezione rispetto ai cambiamenti che si sono avuti nel mercato del credito a seguito del periodo di crisi. Coerentemente con le informazioni provenienti dalle imprese non finanziarie, i dati dell’”Indagine sul credito bancario” di Banca di Italia consentono di evidenziare, dal lato dell’offerta di credito, un irrigidimento delle condizioni a partire dalla seconda metà del 2008. Secondo le istituzioni finanziarie interpellate, i criteri applicati per la concessione delle linee di credito hanno registrato un ulteriore irrigidimento nel corso del primo trimestre 2009; la situazione è poi tornata ad attestarsi su valori analoghi a quelli precedenti la crisi finanziaria tra la fine del 2009 e l’inizio del 2011. Corrispondentemente, le imprese finanziarie hanno giudicato la domanda di credito ricevuta dal mercato in forte ridimensionamento dalla seconda metà del 2007; in dettaglio, per il saldo relativo all’andamento della domanda di prestiti e delle linee di credito si registra una prevalenza di giudizi negativi nel corso del 2009 e una tendenza significativamente positiva per il 2010 e l’avvio dell’anno in corso (Fig. 10). Nelle figure successive, inoltre, viene proposto un confronto fra l’andamento dei depositi (Fig. 11) e quello dei prestiti nelle province di Perugia e Terni negli anni 2008- 2010, mentre la figura 12 illustra l’andamento degli stessi aggregati a livello regionale sempre per il periodo considerato. In entrambi i casi, il numero indice (posto pari a 100) rappresenta dai valori delle variabili in esame al 31 dicembre 2008. Dai grafici è possibile osservare come i depositi registrino una lieve flessione rispetto alla fine dell’anno passato (-1,4% a Perugia e -1,2% a Terni), i prestiti proseguono il trend positivo iniziato nel 2008: dal mese di dicembre 2009 alla fine dell’anno successivo il tasso di crescita dei prestiti è stato pari alla 8,24% per la provincia di Perugia e del 10,30% per la provincia di Terni. Se consideriamo il 31 dicembre 2008 come punto di partenza, inoltre, i tassi di crescita paiono ancor più accentuati: negli ultimi due anni, infatti, i prestiti sono aumentati dell’11,1% nella provincia di Perugia e del 14,9% a Terni. Per quanto di portata quantitativamente limitata, non va sottovalutato nel segno negativo, il calo della raccolta di depositi che, nella nostra regione rappresenta un fatto del tutto raro giacché non è imputabile a fattori stagionali, ma probabilmente a un vistoso calo del processo di accumulazione nelle fasce della popolazione a reddito più basso, tradizionalmente abituate ad utilizzare i depositi bancari come strumento di investimento del risparmio. Dalla Fig. n. 13 è possibile desumere l’andamento dei crediti bancari in contenzioso in Umbria nel periodo Marzo 2009 – marzo 2011. È evidente il preoccupante e costante incremento dei crediti bancari in contenzioso, le sofferenze che, a Marzo 2011, avevano raggiunto 992 milioni di Euro in provincia di Perugia e 244 in quella di Terni hanno registrato un incremento su base annua rispettivamente  del 27,2% e del 34,1%. Inoltre, la necessità di denaro spinge le imprese ad un maggior utilizzo del fido accordato e disponibile. Purtroppo la tendenza al peggioramento della qualità del credito, oltre a segnalare il palese stato di difficoltà di molte imprese nell’onorare gli impegni assunti, attesta che l’uscita definitiva dalla crisi si allontana nel tempo.

 

Note conclusive

Volendo comporre, in questo scenario, le preoccupazioni che sorgono per l’immediato futuro nella fase di uscita dalla peggiore crisi finanziaria ed economica degli ultimi decenni, è possibile individuare tre principali motivi ulteriore apprensione. Innanzitutto, esiste da parte degli istituti di credito una non sempre fondata percezione di rischio più elevato nelle imprese minori rispetto a quelle di maggiori dimensioni, a fronte del fatto che, ad esempio, negli ultimi anni il tempo medio di recupero dei finanziamenti si sia allungato per le prime in misura molto meno significativa di quanto sia accaduto per le seconde. In secondo luogo, il fatto che i ricavi generati dai rapporti intrattenuti da ciascuna banca con una piccola azienda, in particolar modo sul versante delle commissioni e dei proventi accessori, siano, in valore assoluto, piuttosto modesti fa sì che gli istituti di credito siano tentati di recuperare dal lato dei tassi di interesse, applicando condizioni più onerose per tale categoria di clienti. Infine, lo scarso potere contrattuale delle piccole imprese, specie di quelle costituite come ditte individuali o società di persone, rispetto a quello degli intermediari creditizi, induce questi ultimi a scaricare le tensioni e l’andamento negativo del mercato su tali controparti più che sulle aziende maggiori. Il problema della difficoltà di accesso ai finanziamenti e dell’onerosità del credito bancario per le imprese minori diventa ancora più interessante se lo si analizza nell’imminenza dell’entrata in vigore della terza versione dell’Accordo di Basilea. Si prevede infatti che Basilea III correli, in maniera ancora più accentuata della precedente versione del documento, i requisiti patrimoniali minimi delle banche alla valutazione del merito creditizio della clientela, rendendo così ancor più evidente la necessità per gli intermediari di affinare la propria conoscenza delle aziende, e pertanto di superare il modello oggi prevalente di rapporto banca-impresa. In tale contesto, i problemi di finanziamento esterno, cruciali per la piccola impresa, riguarderanno non solo la sua dimensione quantitativa, ma anche la composizione qualitativa dei suoi asset e delle sue passività. Così come il maggior grado di concorrenza che negli ultimi anni ha caratterizzato il panorama bancario, l’introduzione delle nuove regole può rappresentare un rischio, ma può – e dovrebbe – essere interpretata anche come un’occasione favorevole per reimpostare i rapporti tra i vari attori del mercato del credito. La soluzione alle criticità di cui si è detto deve tendere a riconsiderare i rapporti di credito e di interazione tra imprese e banche in termini globali: i piccoli e medi imprenditori devono orientarsi a conferire alle loro aziende una struttura finanziaria più articolata, robusta ed aperta alle opportunità del mercato; d’altra parte, però, gli istituti di credito devono quanto più possibile tentare di cogliere le tendenze in atto ed assecondarle con soluzioni tempestive economicamente e tecnicamente efficienti. In un’ottica più pragmatica, sono diversi i contesti in cui si intravedono ampi margini di miglioramento della situazione attuale. In primo luogo, per quanto concerne le strategie a più lungo termine, considerato che le aziende italiane ed umbre risentono in misura eccessiva del peso degli oneri finanziari sul debito bancario e che soffrono di una cronica carenza di capitale proprio, sarebbe opportuno incoraggiare un potenziamento patrimoniale e il ricorso al capitale di rischio, puntando allo sviluppo di canali di finanziamento alternativi a quello bancario, specie per le imprese in fase di start-up e per le attività produttive ad elevato contenuto tecnologico. Sebbene l’investimento in capitale di rischio, ad esempio nelle forme del venture capital o del private equity possa assicurare agli investitori ampi margini di profittabilità e tradursi in nuovo impulso per lo sviluppo, senza costi derivanti da oneri finanziari, ciò nonostante è ancora poco diffuso in Italia rispetto ai nostri principali concorrenti europei. Le ragioni sono ancora una volta legate alle radici culturali del nostro capitalismo familiare, avverso all’ingresso di nuovi elementi nella compagine societaria, così come nelle norme fiscali che inducono spesso le imprese ad indebitarsi puntando quasi esclusivamente sui presunti benefici della leva finanziaria. Un ulteriore impulso si può ravvisare nel rilancio degli organismi collettivi di garanzia fidi, che potrebbe rivelarsi un fattore di successo in particolar modo se fondato su operazioni di fusione e ricapitalizzazione di questi soggetti promosse dalle stesse imprese destinatarie degli interventi, dalle associazioni di categoria e dagli enti locali. La principale finalità dovrebbe essere quella di potenziare l’operatività di questi soggetti, estendendola oltre il consueto impegno nel sostegno al credito svolto mediante la prestazione di garanzie accessorie, verso un’attività di consulenza specializzata in materia di gestione finanziaria ai piccoli imprenditori. Si può, infatti, ipotizzare che i consorzi o le cooperative fidi possano partecipare con l’imprenditore alla valutazione di convenienza e di costo connessa alle diverse forme di finanziamento e, successivamente, anche a sostenere l’impresa in tutte le questioni di ordine procedurale e amministrativo relative allo svolgimento delle diverse fasi delle operazioni finanziarie. Nella riconsiderazione complessiva del rapporto tra banche e piccole e medie imprese, il ruolo degli enti di garanzia collettiva dei fidi e la loro attività di informazione- formazione nei confronti delle consorziate potrebbero rivelarsi particolarmente utili, in virtù della loro capacità di ridurre l’asimmetria informativa tra datori e prenditori di fondi, di migliorare, così, le condizioni di accesso ai canali di finanziamento e di contribuire ad irrobustire la fragile struttura finanziaria delle imprese più piccole. Tutto ciò risulta ancora più rilevante se si tiene presente in quale modo il maggior grado di concentrazione che ha caratterizzato il mercato bancario nell’ultimo decennio abbia provocato un allontanamento della banca dalla dimensione locale, che rappresenta l’habitat naturale delle imprese minori, e abbia indebolito il rapporto fiduciario su base interpersonale, in passato fulcro del rapporto creditizio.

 

Riferimenti bibliografici

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Note

 (1). Cfr. in proposito Onado M. (2009).

(2). Cfr Ardeni P.G., Messori M. (1996).

(3). Council of Economic Advisors (1991).

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