RACCONTAMI L'UMBRIA

Nella Spoleto che nessuno sa

Articolo partecipante a Raccontami l'Umbria 2018 - sezione Turismo, Ambiente e Cultura

di Claudia Cencini

Pochi sanno che c’è una grossa fetta di centro storico chiusa a chiave da troppi anni nell’abbandono: l’area dell’Anfiteatro, comprendente tre chiese e due monasteri poi fusi nell’ex caserma Minervio. Ad oggi solo una stecca dell’ex Monastero della Stella è oggetto di un progetto di restauro affidato su bando del Comune, briciole rispetto al recupero in toto del complesso per cui non basterebbero 40 milioni di euro. Numeri che fanno paura a potenziali investitori pubblici o privati, ma l’alternativa non può (e non deve) essere l’indifferenza.

 

Dentro Spoleto c’è una città nella città, dove siamo entrati per mostrarvi com’è oggi e farvi sognare su cosa potrebbe essere domani. In prospettiva una miniera d’oro in termini di attrattiva turistica, una grossa fetta di centro storico che nessuno, o quasi, conosce, per secoli luogo di clausura e segreto militare.
Sono le 10 di una mattina di settembre inondata dall’ultimo sole di stagione. Sul piazzale sterrato che dà su piazza Garibaldi, all’imbocco di via Anfiteatro, accessibile da un varco che prima era un muro, ci incontriamo io, il cameraman Roberto Arancio, il presidente dell’associazione “L’Orto di Monterone” Leonardo Galli ’fan’ dell’area e a farci da guida gli architetti Giuliano Macchia e Bruno Gori che del complesso, insieme con l’arch. Moreno Orazi ed altri colleghi più giovani oltre che a numerosi specialisti di altre discipline, hanno contribuito a scriverne la storia.
Senza chiave non si entra, a portarla arriva l’ing. Manuel D’Agata del Comune che avverte: ‘Entrare qua dentro può essere pericoloso’. In effetti, è molto che nessuno ci mette piede.  Parte da qui il nostro viaggio nell’ignoto, in un mondo che acceca di bellezza, ma che purtroppo versa in un vergognoso stato di abbandono e degrado. L’unico ad essere oggetto di un progetto di rifacimento di una porzione è l’ex Monastero della Stella, la cui progettazione è stata appena affidata su bando per un importo di circa 200mila euro a uno studio tecnico di Bastia Umbra su cui sono in corso verifiche di idoneità. In cassa circa 3 mln di euro destinati al recupero di questa piccola porzione dell’ex monastero che rappresenta solo un tassello di un complesso mosaico di perle architettoniche e manufatti che si sono via via succeduti e sovrapposti, nel complesso tre chiese, di cui due intestate a San Gregorio e una ai santi Stefano e Tommaso, e due monasteri fusi nella caserma Minervio con l’Unità d’Italia, oltre a chiostri, cortili, giardini, il tutto spalmato su quasi due ettari di superficie chiusa dalla cinta di mura urbiche costruite sul finire del XIII sec, una cubatura sufficiente a contenere 150 appartamenti.  Oggi c’è un finale ancora tutto da scrivere, ci auguriamo a lieto fine.  

 

UNA STORIA MAI SCRITTA  Sulla storia di quest’area non esistono pubblicazioni, fatta eccezione per una ricerca alla fine degli anni ‘70 ad opera delle architette Anversa e Ferretti su commissione della Fondazione Antonini e finanziata dalla Fondazione Ca.Ri.Spo., peraltro mai data alle stampe, che ha contribuito a fare luce sul suo passato. I pochi precedenti si limitano alle ricerche dell’archeologo Sordini (sua una piantina del comparto che porta la data del 1913), agli studi ‘sparsi’ di Angelini Rota, Bruno Toscano e a un rilievo degli anni Settanta.  L’ultimo capitolo di questa lunga e affascinante storia risale al 1997 quando, in concomitanza con il terremoto, lo Stato promulgò una legge in virtù della quale la proprietà di tutto il complesso ormai in disuso fu sottratta al Demanio dello Stato ramo della Difesa e ritornò in mano al Comune di Spoleto. Fra i suoi possibili usi anche l’ipotesi di un polo scolastico come ricorda l’ex assessore comunale ai lavori  pubblici Giancarlo Cintioli: “L’idea era di portare al suo interno gli istituti a indirizzo tecnico per geometri e magistrali. Fu individuato nell’Università di Perugia un potenziale partner per la riuscita del progetto, mai andato in porto”. “Ora  conclude Cintioli  da libero cittadino la domanda che mi pongo è cosa se ne vuole fare”.  

 

ANFITEATRO ROMANO  Questa cittadella conserva nel suo ventre qualcosa come l’anfiteatro pari quasi ad un terzo del Colosseo. Smontato, interrato, abbandonato. Eppure i resti di quello straordinario stadio dell’antichità datato II sec.d.C., in origine fuori le mura, stanno ancora lì a ricordarci che quasi duemila anni fa sulla sua arena si consumavano i combattimenti fra gladiatori, le lotte fra uomini e bestie feroci e il martirio dei cristiani. Vi fu portato lo stesso San Ponziano, patrono di Spoleto, ma narra la leggenda che fu graziato dai leoni e quindi decapitato sul Ponte Sanguinario, che con l’anfiteatro faceva un tutt’uno, se pur antecedente di tre secoli. La sua etimologia potrebbe ricollegarsi proprio all’usanza di far uscire dalla porta dell’anfiteatro che dava verso di esso i cadaveri vittime dei ‘Ludi gladiatorii”. L’anfiteatro era originariamente un imponente edificio fuori terra, secondo in Umbria solo ad Otricoli, che sorgeva su un punto strategico dove passava la Flaminia e per la sua costruzione fu addirittura deviato il corso del Tessino che, poi, si ’vendicò’ impaludando i terreni circostanti. Dopo la soppressione dei giochi da parte dell’imperatore Cristiano Onorio nel 404, con le successive invasioni barbariche la struttura fu sfruttata per scopi bellici e sotto Totila divenne    un fortilizio. Dell’anfiteatro restano oggi spezzoni nella vegetazione e l’ingresso all’ambulacro, segnalato a matita, da una scalinata invasa da sterpaglie. In origine gli ingressi per l’accesso erano quattro. Oggi l’ellisse originaria di 115 metri per 80 non potrebbe più essere recuperata per intero proprio per le sovrastrutture intervenute dopo, ma più della metà sì. E a chi crede che sia stato ‘svestito’ delle sue pietre per costruire la Rocca, Gori sfata: “Le pietre dell’anfiteatro non sono compatibili con quelle della Rocca, è più plausibile attribuire la sua spoliazione a crolli e processi fisiologici dovuti al tempo”.  

 

IL MONASTERO DELLA STELLA  Era il 1235 quando l’allora vescovo (folignate!) di Spoleto Bartolomeo Accoramboni osservando la traiettoria indicata dalla luce di una stella individuò il pozzo, ritrovato e riportato alla luce sotto tre strati di pavimento, dove poi si scoprì venissero gettati ‘li corpiccioli addensati’ dei figli della colpa, neonati non voluti e buttati via come rifiuti. Turbato dalla macabra scoperta, il vescovo vi fece costruire l’ospedale degli innocenti, un brefotrofio per accogliere e accudire quei bimbi rifiutati da chi li aveva concepiti.  Partiamo da qui, dalla ‘ruota’ dove venivano esposti i neonati di cui le suore di clausura si prendevano cura, un freddo quadro di pietra che segna il passaggio dal fuori al dentro. Il simbolo della stella è una costante impressa quasi ossessivamente sulla facciata dell’edificio, ma anche all’esterno, su stabili in centro che stanno ancora oggi a testimoniare attraverso quel marchio le proprietà immobiliari facenti capo alle suore agostiniane lateranensi dette anche rocchettine per via del rocchetto, un piccolo mantello rosso che indossavano, insieme a un anello d’oro. Erano loro le padrone di casa, fanciulle di famiglie aristocratiche destinate  alla vita monastica per non contendere lo scettro agli eredi maschi ma che nemmeno in convento rinunciavano agli agi. Ne danno testimonianza i motti sugli architravi, uno dei quali recita “Vita claustri optima”. A conferma della ‘bella vita’ delle monache anche gli ambienti del monastero, refettori principeschi, chiostri monumentali, ambienti di lavoro e sale di rappresentanza che sfoggiano pareti affrescate, soffitti lignei e a cassettoni, orti e giardini e una cucina che lascia di stucco, quattro metri per quattro solo la canna fumaria perché il cibo era sacro come recita la scritta: “In coquina perficitur anima” (In cucina si perfeziona l’anima).  I piani del monastero sono collegati da scalinate imponenti, ben conservate, che ricordano quelle di palazzo Strozzi, non a caso fatte con materiali lapidei di provenienza toscana. Sui pianerottoli finestroni con magici affacci sulla Rocca e i tetti di Spoleto.  

 

IL MONASTERO DEL PALAZZO  Più modesto, ma nemmeno poi tanto, il tenore francescano delle clarisse, le suore povere per modo di dire, alle quali fu dato in uso il Monastero del Palazzo, lo stabile che insiste proprio sull’area dell’anfiteatro, anch’esso di notevole pregio architettonico con lo splendido porticato fatto edificare nel ‘600 dal vescovo Castrucci. Alcune pareti del monastero del Palazzo seguono un andamento ellittico proprio perché fu costruito sopra parte dell’anfiteatro sulla cui cavea fu edificata la stessa chiesa romanica di San Gregorio Prete detta anche ‘De Griptis’ per la presenza di resti archeologici simili a grotte. E’ lì che durante i lavori di ricerca e demolizione delle superfetazioni, in corso una decina di anni fa, venne alla luce il sacello di San Gregorio Prete nel punto esatto della sepoltura del santo che dà il nome a quattro chiese spoletine. “Una scoperta emozionante” rammenta Macchia. La reliquia, forse trafugata nei secoli, non è stata mai rinvenuta. Tutti gli spazi erano funzionali e ottimizzati, su uno sgabuzzino ritagliato dalle scale una nicchietta affrescata a misura di monaca ‘pizzaiola’.  LA CASERMA MINERVIO  Con l’Unità d’Italia i due monasteri della Stella e del Palazzo, con l’acquisizione da parte del Demanio militare, furono accorpati nella caserma Minervio con ingresso da via Anfiteatro. A seguito di quell’espropriazione forzosa le monache furono ’sfrattate’ dai due monasteri. Le lateranensi finirono a San Ponziano, mentre le clarisse in parte tornarono a San Nicolò, in parte nel convento di Santa Maria inter Angelos, meglio conosciuto come ‘Le Palazze’, lungo il Giro dei Condotti.  La struttura fu, di conseguenza, rimaneggiata conservando tuttora tracce del passaggio degli ufficiali di stanza a Spoleto e delle loro  famiglie che alloggiavano in caserma. Sui muri il marchio del sacrificio dei soldati della Grande Guerra, numeri che fanno rabbrividire, pezzi inediti di memoria che non hanno prezzo. Alto il tenore di vita militare, trattandosi di alti ufficiali, nel corso dei lavori sono stati rinvenuti piatti Ginori con stampate le iniziali E.I. (Esercito Italiano). Il piazzale da cui siamo entrati, tra l’angolo del baretto e l’ingresso laterale alla Farmacia Amici, era l’area della scuderia dei cavalli dei soldati che, in parte già crollata e costruita con materiali poveri, è stata demolita mentre la scuderia per i cavalli degli ufficiali è un gioiello liberty che insiste sull’asse minore dell’anfiteatro. “Sarebbe un delitto smantellarlo, tutto ciò che è qui racconta una storia” chiosano gli architetti. Qualcuno ha lasciato un paio di pattini sul pavimento del dormitorio, uno stanzone lungo 75 metri con le pareti che ancora fanno intravedere la sagoma delle porticine delle celle monastiche.  

 

LA GRANDE CASBAH  Nell’ala vicina al complesso dell’anfiteatro fino agli anni Settanta vivevano in condizioni disumane famiglie senzatetto che avevano occupato abusivamente ambienti promiscui divisi da coperte appese al posto dei muri, fuori un bagno comune. La zona, in uso al comune dal secondo Dopoguerra, era chiamata la Casbah in senso dispregiativo, eppure anche quella oggi ha una parvenza di bellezza. Toccante il ricordo della spoletina Giulia: “Ci venivo da bambina per giocare con la mia amichetta Emilia. Lei stava alla Casbah con la sua famiglia, uscivamo a giocare a palla, si scrivevano sui muri i nostri nomi, i nostri desideri e davanti al dipinto della Madonnina ci si fermava per dire una preghiera. Poi Emilia è partita per Milano e non l’ho mai più rivista. Sono passati cinquant’anni”.

 

Speriamo di avervi fatto vedere e conoscere un po’ di questa Spoleto segreta e chiusa a chiave, un posto che profuma di menta, di terra e di storia dove c’è bellezza, arte, poesia. E anche futuro, se si ha la lungimiranza di sottrarlo all’indifferenza e trovare il modo (e le risorse!) per ridarlo alla città.

 

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