MARCHI & BREVETTI

30 giugno 2012

Pubblicità commerciale, regole e controlli

di Giuseppe Caforio

La pubblicità è una forma di comunicazione che le aziende utilizzano per raggiungere molteplici obbiettivi, che vanno dall’incremento delle vendite al miglioramento dell’immagine dei loro prodotti e al contrasto dei concorrenti. L’importanza della pubblicità, o meglio della comunicazione commerciale come più frequentemente viene chiamata, è sotto gli occhi di tutti; essa è divenuta una delle componenti più rilevanti della società dei consumi e del benessere. Le imprese si disputano la clientela non solo attraverso un’offerta di qualità migliore a prezzi più convenienti, ma anche attraverso la comunicazione di un’immagine dei prodotti che, agli occhi dei consumatori, li distingua positivamente da quelli dei concorrenti: pubblicità e attività promozionali in genere sono potenti armi nella battaglia competitiva tra le imprese, hanno la funzione di incrementare la domanda spostando quote di mercato da un’impresa all’altra, divenendo strumenti per lo svolgimento della competizione. Data la natura e la funzione stessa della pubblicità, i primi soggetti che devono rivendicare tutela, ed evitare di danneggiare i propri concorrenti, sono proprio coloro che vi fanno ricorso. La pubblicità, infatti, se realizzata in modo non corretto e responsabile, presenta tutte le caratteristiche per porre in essere comportamenti lesivi dei concorrenti. Le imprese che si confrontano sul mercato ricorrendo allo strumento pubblicitario hanno il diritto a che nessuno si avvantaggi scorrettamente, utilizzando messaggi decettivi e tali da alterare la sana e leale competizione che dovrebbe sempre caratterizzare il giusto mercato. Quindi ciò che si deve vietare alla pubblicità è il ricorrere ad artifici, forzature e condotte scorrette al solo fine di sottrarre ad ogni costo fette e quote di mercato e consenso ai danni dei concorrenti. Non sono solo le imprese che operano nel mercato ad essere coinvolte nella dinamica pubblicitaria, ma altro protagonista è il consumatore, che fa parte del pubblico dei potenziali acquirenti. L’utente - consumatore, destinatario naturale della pubblicità commerciale, quotidianamente assoggettato alle conseguenze derivanti dalla portata contenutistica dei relativi messaggi, è sostanzialmente partecipe del fenomeno pubblicitario. L’interesse del consumatore si realizza nel momento in cui egli compie un acquisto non viziato da turbative o imperfetta informazione. Egli ha il diritto di effettuare scelte d’acquisto motivate e coscienti, sulla base di informazioni e suggerimenti che siano corretti, onesti e veritieri. L’utilizzo di questi tre aggettivi non è causale in quanto essi costituiscono i tre cardini intorno ai quali deve ruotare una pubblicità per essere effettivamente funzionale all’obbiettivo e alla finalità che si è posta, ossia svolgere una funzione informativa; funzione cui verrebbe meno ove non si uniformasse a tali doveri giuridici. Il consumatore si trova in una posizione di maggior debolezza e deve pertanto essere maggiormente tutelato rispetto a coloro che utilizzano la pubblicità quale comunicazione commerciale, capace di incidere in modo rilevante nella formazione dello stimolo e nell’adozione del conseguente comportamento d’acquisto. Si deve però tenere in considerazione che la pubblicità è comunicazione di parte, utilizzata per la vendita di un solo bene o servizio e che le imprese hanno la necessità di enfatizzare i vantaggi che un prodotto assicura ed offre al consumatore rispetto agli altri, e di indurre il pubblico a ritenere che quella sola marca sia conforme alla sua peculiare personale necessità. La pubblicità ha il diritto di sedurre, l’importante è conoscere il limite oltrepassato il quale la naturale propensione elogiativa di un messaggio sconfini nel mendacio pubblicitario utilizzando l’inganno e inducendo in errore su quelle che sono le caratteristiche e gli effetti di un prodotto.

La disciplina pubblicitaria e le regole di concorrenza

La pubblicità oggi è uno dei più importanti strumenti della lotta concorrenziale: alcuni dei più importanti atti tipici di concorrenza sleale vietati dall’art. 2598 c.c. vengono compiuti principalmente mediante la comunicazione dell’impresa al largo pubblico; tuttavia essa riguarda non solo gli interessi dei concorrenti, ma anche l’interesse generale al buon funzionamento del mercato e della concorrenza e gli interessi economici ed extraeconomici dei suoi destinatari: i consumatori, i risparmiatori e più in generale i cittadini. Occorre perciò che essa fornisca informazioni utili e che non sia ingannevole o fuorviante. In Italia venne presto percepito che uno strumento potente come la pubblicità richiedeva una qualche forma di controllo: le prime norme risalgono agli anni Venti ed esse prevedevano perlopiù il ricorso alla censura preventiva dei messaggi pubblicitari, limitata peraltro ad alcuni settori merceologici. Negli anni successivi alla fine della guerra, nonostante la straordinaria crescita del fenomeno pubblicitario, gli interventi legislativi furono molto scarsi. Per molto tempo è mancata invece una disciplina che vietasse in modo generale la pubblicità ingannevole: si è finiti per riconoscere che essa costituisce concorrenza sleale in quanto atto contrario ai principi della correttezza professionale di cui all’art. 2598 n.3 c.c. Poiché la legittimazione ad agire è riservata ex art. 2601 c.c. ai concorrenti e alle loro associazioni professionali, oggetto di tutela della disciplina in discorso appare evidente che erano solo gli interessi della classe imprenditoriale, cui sono riconnessi solo in via strumentale ed eventuale gli interessi dei consumatori, che sono i soggetti maggiormente pregiudicati dalla pubblicità ingannevole.

L’autodisciplina privata

Negli anni ‘60 l’assenza di una adeguata disciplina legislativa della pubblicità ha indotto le associazioni più rappresentative degli operatori del settore a dar vita ad un sistema di autodisciplina che stabilisse con un codice le regole essenziali cui si deve uniformare la pubblicità, e ne assicurasse l’osservanza mediante un adeguato apparato istituzionale. Da qui la nascita dell’Istituto dell’Autodisciplina Pubblicitaria (c.d. I.A.P.), ente privato a base associativa, che ha affidato ad organi giudicanti interni, il Giurì ed il Comitato di controllo, il compito di vigilare affinché specifiche regole siano osservate dai propri associati e da chiunque le abbia negozialmente accettate. L’Istituto ha elaborato un Codice di Autodisciplina Pubblicitaria, pubblicato per la prima volta nel 1966 e da allora costantemente aggiornato. Il codice vincola solo gli associati, i quali, a loro volta, si impegnano ad obbligare contrattualmente al suo rispetto i soggetti, eventualmente non associati, con i quali concludono contratti pubblicitari. Il codice di autodisciplina pubblicitaria, pur derivando la sua efficacia da accordi negoziali fra gli operatori del settore, ha stabilito per molto tempo lo standard di condotta cui le imprese sono tenute ad attenersi nel diffondere messaggi pubblicitari ed ha finito con l’acquisire valore anche ai fini della determinazione dei “principi della correttezza professionale” di cui all’art. 2598 n.3 c.c..

Le regole del legislatore europeo

Le norme di legge esistenti e il Codice di Autodisciplina non erano sufficienti a tutelare il diritto del consumatore a ricevere una informazione pubblicitaria veritiera e affidabile. È stata la Comunità Europea a dare un forte impulso allo sviluppo della materia, adottando nel 1984 la direttiva 84/450/CEE, che stabilisce i principi generali in materia di pubblicità ingannevole ai quali le legislazioni degli stati membri dovevano uniformarsi. L’Italia ha dato attuazione alla Direttiva Comunitaria 84/450/CEE adottando il decreto legislativo n. 74 del 25 gennaio 1992 con cui il nostro legislatore ha introdotto per la prima volta un divieto di carattere generale della pubblicità ingannevole allo scopo “di tutelare dalla pubblicità ingannevole e dalle sue conseguenze sleali i soggetti che esercitano un’attività commerciale, industriale, artigianale o professionale, i consumatori e, in genere, gli interessi del pubblico nella fruizione di messaggi pubblicitari”. Ciò significa che il divieto della pubblicità ingannevole è stato introdotto per realizzare una condizione necessaria per un efficiente funzionamento del mercato e per rimuovere un ostacolo alla realizzazione di un mercato comune, nell’interesse generale e in quello di tutte le categorie di soggetti presenti sul mercato come consumatori o imprenditori concorrenti. Il d.lgs. n.74/1992 ha perseguito gli scopi indicati stabilendo un divieto di ordine generale della pubblicità ingannevole, dando una definizione della fattispecie, dettando alcuni criteri per la sua valutazione e affidando all’Autorità garante della concorrenza e del mercato (organismo indipendente istituito dalla legge n.287/1990) il compito di perseguirla vietando con decisione motivata “la pubblicità non ancora portata a conoscenza del pubblico o la continuazione di quella già iniziata“ e disponendo discrezionalmente “la pubblicazione della pronuncia, anche per estratto, nonché, eventualmente, di un‘apposita dichiarazione rettificativa in modo da impedire che la pubblicità ingannevole continui a produrre effetti“. La repressione avveniva con rimedi rivolti solo a prevenire o a far cessare la diffusione della pubblicità di cui venga accertato il carattere ingannevole e dalle eventuali conseguenze dannose che si possono avere per i consumatori con la conclusione di contratti che altrimenti non sarebbero stati conclusi o lo sarebbero stati a condizioni diverse. Il d.lgs. 74/1992 non si occupava del risarcimento dei danni e delle altre conseguenze dell’inganno pubblicitario nei rapporti contrattuali. La direttiva 84/450/CEE in attuazione della quale il d.lgs. 74/1992 era stato emanato è stata modificata con la recente direttiva 2005/29/CE “relativa alle pratiche commerciali sleali tra imprese e consumatori nel mercato interno”. La nuova direttiva si propone di armonizzare le legislazioni nazionali “in materia di pratiche commerciali sleali lesive degli interessi economici dei consumatori” per “contribuire al corretto funzionamento del mercato interno e al conseguimento di un livello elevato di tutela dei consumatori”. La direttiva obbliga gli Stati membri a vietare le pratiche commerciali definite come “qualsiasi azione, omissione, condotta o dichiarazione, comunicazione commerciale ivi compresi la pubblicità e il marketing, posta in essere da un professionista, direttamente connessa alla promozione, vendita o fornitura di un prodotto ai consumatori” che siano sleali in quanto siano contrarie “alla diligenza professionale” e falsino o siano idonee “a falsare il comportamento economico, in relazione al prodotto, del consumatore medio che raggiunge o al quale è diretta”, “inducendo ad una decisone di natura commerciale che non avrebbe altrimenti preso”. La direttiva quindi è rivolta anche a reprimere la pubblicità ingannevole che sia idonea a danneggiare in misura rilevante i consumatori, e in tali limiti ha sostituito la vecchia direttiva 84/450/CEE; tuttavia il legislatore ha mantenuto in vita con qualche modifica la vecchia direttiva, che ha assunto il n. 2006/114/CEE, ma ne ha limitato lo scopo e l’ambito di applicazione. In quest’ultima il legislatore afferma che “la presente direttiva ha lo scopo di tutelare (non più “il consumatore e le persone fisiche che esercitano un’attività commerciale, industriale, artigianale o professionale, nonché gli interessi del pubblico in generale”, bensì) i professionisti dalla pubblicità ingannevole e dalle sue conseguenze sleali e di stabilire le condizioni di liceità della pubblicità comparativa”. Il legislatore comunitario ha quindi voluto differenziare il regime della pubblicità ingannevole che sia idonea a danneggiare in misura rilevante i consumatori, dal regime di pubblicità ingannevole che sia idonea a danneggiare solo gli operatori economici.

La normativa italiana e il Codice del Consumo

La normativa, di derivazione europea, posta a tutela del consumatore e della concorrenza si è, di recente, arricchita per effetto della Direttiva n. 2005/29/ CE, relativa alle “Pratiche commerciali sleali tra imprese e consumatori nel mercato interno”. Il legislatore nazionale ha, infatti, provveduto a darvi attuazione adottando, nell’agosto del 2007, due distinti decreti legislativi (nn. 145 e 146), rispettivamente destinati ai rapporti tra professionisti ed alle pratiche intraprese da questi ultimi con i consumatori. Il nostro legislatore, dando attuazione alla direttiva 2005/29/CE, a prima vista si è attenuto alla predetta distinzione della disciplina e, da un lato ha inserito la disciplina delle pratiche commerciali sleali fra imprese e consumatori nel Codice del consumo (artt. 18-27 quater) e dall’altro ha tenuto in vita la vecchia disciplina della pubblicità ingannevole e comparativa (originariamente contenuta nel d.lgs. 74/1992, poi confluita nel Codice del Consumo), riversandola nel d.lgs. 145/2007. Il Codice del Consumo abbandona il precedente riferimento alla sola pubblicità ingannevole e comparativa per abbracciare una disciplina di portata più ampia, riferibile, sotto il profilo oggettivo, ad ogni azione, omissione, condotta, dichiarazione e comunicazione commerciale, “ivi compresa la pubblicità”, posta in essere da un professionista “prima, durante e dopo un’operazione commerciale relativa ad un prodotto”, così notevolmente allargando il campo delle condotte sanzionabili. Quanto, invece, all’ambito di applicazione soggettivo, le pratiche commerciali rilevate ai fini della presente normativa sono solo quelle poste in essere tra professionisti e consumatori: rimangono, pertanto, escluse quelle condotte connesse ad un rapporto tra soli professionisti, cui, viceversa, fa riferimento il parallelo d.lgs. n. 145/2007. Preordinato a tutelare i professionisti dalla pubblicità ingannevole e dalle sue conseguenze sleali, nonché diretto a stabilire le condizioni di liceità della pubblicità comparativa, è il d.lgs. n. 145/2007. Tale normativa detta la nuova disciplina sulla pubblicità ingannevole e comparativa esclusivamente nei rapporti tra professionisti, primi destinatari delle disposizioni ivi contenute. Paradossalmente però il nostro legislatore ha affidato principalmente all’Autorità garante della concorrenza e del mercato il compito di reprimere non solo le violazioni del Codice del consumo ma anche quelle del d.lgs. 145/2007: paradossalmente perché la pubblicità ingannevole che non pregiudichi in misura rilevante i consumatori, come quella comparativa che non soddisfi le condizioni cui ne è subordinata la liceità, lede principalmente i professionisti ed i concorrenti, sicché non si vede per quale ragione la tutela contro tali atti non debba essere riservata ai soggetti che si ritengono danneggiati soprattutto nell’ambito della repressione della concorrenza sleale. La scelta del legislatore, pur sistematicamente incoerente, si spiega, per un verso, con un’esigenza di continuità rispetto alla precedente disciplina che affidava all’Autorità garante il compito di reprimere non solo la pubblicità ingannevole, ma anche la pubblicità comparativa illecita senza richiedere che l’intervento repressivo dell’Autorità fosse giustificato da un interesse dei consumatori o della collettività, ma per un altro verso può essere giustificata con l’esigenza pratica di evitare la necessità di volta in volta di verificare se la fattispecie ricade nel campo di applicazione dell’una o dell’altra normativa, nonché con l’obiettivo di armonizzare l’interpretazione e l’applicazione delle due normative. Tali considerazioni però non fanno venir meno la necessità di delimitare il campo di applicazione della repressione delle pratiche commerciali scorrette contenuta nel Codice del consumo e della disciplina della pubblicità ingannevole cui si riferisce il d.lgs. 145/2007. Il fatto che sia il legislatore comunitario che quello italiano abbiano voluto tenere distinta la disciplina applicabile alle pratiche commerciali sleali da quella applicabile alla pubblicità ingannevole che non pregiudichi in misura rilevante i consumatori, significa che si è voluto che la valutazione delle fattispecie soggette all’una o all’altra disciplina debba avvenire con criteri in parte diversi. Come risulta da quanto detto, la pubblicità ingannevole è soggetta alla disciplina delle pratiche commerciali scorrette se è rivolta a pubblicizzare prodotti o servizi destinati a consumatori e falsi o sia idonea a falsare in misura rilevante il loro comportamento economico inducendoli a prendere decisioni di natura commerciale che non avrebbero altrimenti preso. Viceversa è soggetta alla disciplina della pubblicità ingannevole di cui al d.lgs. 145/2007 la pubblicità che pubblicizzi prodotti destinati esclusivamente a professionisti, nonché la pubblicità che, pur pubblicizzando prodotti destinati anche a consumatori, non sia idonea a falsare in misura rilevante il comportamento economico dei consumatori inducendoli a prendere decisioni di natura commerciale che non avrebbero altrimenti preso. Il d.lgs. 145/2007 è rivolto a vietare messaggi pubblicitari ingannevoli che non sono idonei ad indurre i consumatori a prendere decisioni diverse da quelle che avrebbero altrimenti preso e che però per il solo fatto di influenzare il comportamento dei consumatori possono danneggiare i concorrenti. Il d.lgs. 74/1992 introduce, innanzitutto, una nozione generale di pubblicità. L’art. 2 lett. a) dispone che per pubblicità s’intende: “qualsiasi forma di messaggio che sia diffuso, in qualsiasi modo, nell’esercizio di un’attività commerciale, industriale, artigianale o professionale allo scopo di promuovere la vendita di beni mobili o immobili, la costituzione o il trasferimento di diritti ed obblighi su di essi oppure la prestazione di opere e servizi”. Elemento centrale della nozione è la “funzione” del messaggio: si deve intendere per pubblicità ogni comunicazione finalizzata a promuovere la domanda di beni e servizi. Quanto all’oggetto della pubblicità l’elencazione contenuta nell’art. 2 è indicativa e non tassativa: è sufficiente che il messaggio abbia una funzione promozionale di beni o servizi anche meramente indiretta. L’elemento soggettivo della fattispecie (“nell’esercizio di un’attività commerciale, industriale, artigianale o professionale”) vale ad escludere che ogni forma di comunicazione dal contenuto oggettivamente promozionale possa essere ritenuta pubblicità: si deve ritenere pubblicitaria soltanto la comunicazione promozionale riconducibile, direttamente o indirettamente, all’impresa cui si riferisce. Quanto all’elemento strutturale della fattispecie (“qualsiasi forma di messaggio, che sia diffuso in qualsiasi modo”) deve ricomprendersi nella nozione di pubblicità, ogni forma di comunicazione interpersonale (verbale, sonora, etc.) ma anche le confezioni e gli imballaggi dei prodotti, le indicazioni o i documenti informativi resi obbligatori per legge, i marchi e gli altri segni distintivi. Quanto alla diffusione, la nozione ricomprende ogni comunicazione destinata ad essere diffusa presso terzi. Con ciò riferendosi sia alle forme tradizionali della comunicazione di massa (es. spot), sia alla pubblicità diretta (es. volantini), sia a quella nel punto vendita, sia anche qualora la fruizione del messaggio possa avvenire solo a seguito di un comportamento attivo e/o interattivo del consumatore. Ai sensi dell’art. 2 lett. b), per “pubblicità ingannevole” si deve intendere: “qualsiasi pubblicità che in qualunque modo, compresa la sua presentazione, induca in errore o possa indurre in errore le persone fisiche o giuridiche alle quali è rivolta o che essa raggiunge e che, a causa del suo carattere ingannevole, possa pregiudicare il loro comportamento economico ovvero che, per questo motivo, leda o possa ledere un concorrente”. La norma, alla luce di un’interpretazione sistematica e non meramente letterale, va così ricostruita: è ingannevole la pubblicità idonea ad indurre in errore i suoi potenziali destinatari e a provocare loro, di conseguenza, un pregiudizio economico. L’idoneità a ledere i concorrenti va considerata come un elemento eventuale della fattispecie (rilevante per la legittimazione ad agire dei concorrenti), non come un elemento essenziale della stessa. Il giudizio di ingannevolezza si compone dunque di due momenti: la valutazione dell’idoneità del messaggio ad indurre in errore i consumatori; la valutazione delle potenziali conseguenze dell’errore sul comportamento economico dei consumatori stessi.

Tutela della concorrenza leale e diritti del consumatore: due discipline che si intersecano

Confrontando le disposizioni dei due testi normativi si nota che nell’individuare i criteri con cui valutare se una pubblicità sia ingannevole, essi richiedono concordemente:

a) che la pubblicità sia idonea a trarre in errore i consumatori cui è rivolta o che raggiunge

b) che la pubblicità a causa del suo carattere ingannevole possa pregiudicare il comportamento economico dei consumatori, o secondo il d.lgs. n.145/2007 anche dei professionisti cui sia esclusivamente destinata.

 Dal confronto risultano anche differenze non trascurabili nel modo in cui le due normative intendono l’idoneità della pubblicità a trarre in errore i consumatori e a pregiudicare il loro comportamento economico.

a) secondo entrambi i testi normativi l’idoneità della pubblicità a trarre in errore i consumatori deve tener conto non tanto della veridicità o falsità delle affermazioni contenute nel messaggio su determinati fatti, quanto dell’idoneità del messaggio considerato nel suo complesso e con riguardo a tutte le modalità della sua costruzione, presentazione e diffusione a trarre in errore il pubblico dei consumatori cui è rivolta o che raggiunge. Tale idoneità deve essere valutata dal punto di vista delle persone che ricevono la pubblicità, ma sono anche interessate ai prodotti o servizi pubblicizzati. La valutazione dell’ingannevolezza richiede quindi la ricostruzione della capacità di comprensione e di attenzione e più in generale dell’atteggiamento di fronte alla pubblicità del pubblico cui la pubblicità si rivolge. Il d.lgs. n.145/2007 lascia aperto il problema se la valutazione debba essere compiuta avendo riguardo al consumatore di media diligenza e capacità di comprensione ovvero ai consumatori più sprovveduti e bisognosi di protezione; invece il Codice del consumo stabilisce espressamente che l’idoneità della pubblicità a falsare in misura apprezzabile il comportamento economico dei consumatori e a trarli in errore deve essere valutata dal punto di vista “del consumatore medio che essa raggiunge o al quale è diretta o del membro medio di un gruppo qualora la pratica commerciale sia diretta a un determinato gruppo di consumatori”. La differenza però viene meno in quanto la Corte di Giustizia in sede di interpretazione della direttiva 84/450/ CEE ha affermato che l’idoneità della pubblicità a trarre in errore i consumatori deve essere valutata facendo riferimento ad un consumatore medio normalmente informato e ragionevolmente attento ed avveduto: si può quindi estendere il parametro previsto nel Codice del consumo alla valutazione della ingannevolezza sulla base del d.lgs. n.145/2007.

b) per quanto concerne l’idoneità della pubblicità a pregiudicare il comportamento economico dei consumatori, le differenze non sembrano superabili. Con riguardo al d.lgs. n. 74/1992 era inizialmente controverso se l’espressione “pregiudicare il comportamento economico dei consumatori” significasse che l’errore deve essere tale da poter arrecare danno patrimoniale ai consumatori o semplicemente tale da poter influenzare il comportamento dei consumatori e quindi le loro scelte o decisioni di acquisto. L’espressione deve essere intesa nel senso di influenzare il comportamento dei consumatori, inducendoli ad effettuare scelte diverse da quelle che essi avrebbero fatto in assenza dell’inganno, a prescindere dal fatto che tali scelte comportino un pregiudizio economico: questa interpretazione trova conferma nei testi della direttiva 2006/119/CE, ed è questa l’interpretazione dell’art. 2 lettera b) del d.lgs. n. 74/1992 accolta dall’Autorità garante secondo la quale il carattere ingannevole di un messaggio pubblicitario deve essere valutato avendo riguardo al primo contatto che il messaggio instaura con i consumatori prescindendo dalle eventuali vicende successive che possono neutralizzare per il consumatore gli effetti del messaggio. Questa interpretazione del pregiudizio al comportamento economico dei consumatori non potrebbe essere accolta per valutare la pubblicità ingannevole nell’ambito del regime delle pratiche commerciali scorrette. L’art. 21 considera scorretta una pratica commerciale se è contraria alla diligenza professionale e falsa o è idonea a falsare in misura apprezzabile il comportamento economico del consumatore medio. L’art. 22 considera ingannevole una pratica commerciale se induce o è idonea ad indurre in errore il consumatore medio in modo da assumere una decisione di natura commerciale che non avrebbe altrimenti preso. Risulta la volontà del legislatore di limitare il divieto delle pratiche commerciali scorrette a quelle soltanto che presentino una rilevante efficacia pregiudizievole nei confronti dei consumatori. Una decisione che può essere spiegata con la preoccupazione di non interferire nello svolgimento dell’attività imprenditoriale se non a tutela di interessi apprezzabili dei consumatori, ma che se venisse applicata anche alla disciplina della pubblicità a tutela dei concorrenti finirebbe col privare questi della possibilità di difendersi dalla pubblicità che per il solo fatto di trarre in errore i consumatori su circostanze rilevanti nel loro apprezzamento possa arrecare loro un danno concorrenziale.

In conclusione la pubblicità è uno strumento fondamentale di penetrazione e conquista del mercato ed è legittima a condizione che venga effettuata con correttezza professionale, evitando di ledere illecitamente l’altrui azienda e rispettando il consumatore finale, rendendo una comunicazione veritiera, quantunque suggestiva che comunque non lo induca in errore.