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30 giugno 2011

Il pane di ieri e di oggi

di Giovanni Zavarella

E Dio disse ad Adamo: guadagnerai il pane con sudore. E da allora l’uomo ha faticato non poco per procurarsi il pane. Da tempo immemorabile i cereali sono stati la risorsa alimentare per eccellenza delle genti d’Occidente e d’Oriente. Addirittura c’è chi fa risalire la presenza dei cereali all’età del fuoco. Non è un caso che prima la civiltà greca e poi quella romana abbiano ‘inventato’ una divinità delle messi, del grano quale era Demetra per la mitologia greca e Cerere per quella romana. Da quest’ultima deriva il termine cereale. E la stessa funge, come risulta nelle tavole eugubine, da fattore di sacralità, laddove serviva per la ‘purificazione della radura del bosco’, costituita di farina di farro tostato misto a grani di sale depurato’. Si trova scritto nei fasti di Ovidio: ’Ante, deos homini quod conciliare valeret far erat et puri lucida mica salis (prima quel che poteva conciliare gli dei all’uomo era il farro con i grani brillanti di sale puro). E non è un caso che l’offerta per antonomasia agli dei è quella dei pani. E sembra che il più remoto cereale sia stato proprio l’orzo che sarà poi soppiantato dal grano. Nel rispetto di condizioni climatiche il frumento ebbe a svilupparsi nell’area mediterranea, non ultimo in Sicilia e in Egitto che divennero i granai di Roma (nell’accezione moderna, almeno due mila anni or sono), l’avena e la segala nei paesi nordici, il sorgo in Africa, il riso in Asia, il mais in America. Quest’ultimo fu conosciuto dagli europei dopo la scoperta dell’America nel 1492. Dal testo delle ‘Tavole eugubine’ ci viene detto che nell’umbro ‘Fikla’ (e varianti) ‘riteniamo si celi il nome del pane comune, o comunque la designazione generica di ciò che risulta dal processo di panificazione (come la focaccia e la piada, o crescia,per esempio, oltre che il pane com’è inteso oggi’. E in quest’ambito, non è improbabile che il nome specifico di farina possa farsi risalire proprio al farro,dal latino far farris, oltre che in osco e in falisco. Con lo scorrere del tempo il pane è diventato il simbolo più importante della religione cristiana,tale da diventare il corpo di Cristo nell’Eucarestia, evocato nell’ultima cena, e risultare centrale nella preghiera che Gesù affidò agli uomini di buona volontà laddove recita: ’dacci il pane quotidiano. Per non parlare del miracolo dei pani e dei pesci. E soprattutto si è caricato di una sacralità straordinaria nella civiltà contadina di tutta l’Europa. Chi non ricorda il miracolo dei mietitori nell’area della Chiesina campestre di San Francescuccio. Nel tempo antico non mancava il balzello sul grano. Dice Don Vittorio Falcinelli su Badia S. Nicolò di Campolongo: ’le rendite, in grano, dal 1475 per tre anni stabiliti con i citati ed altri affittuari, sono pari a 88 rasenghe annue. L’abate Leonzio liquida qualche debituccio: a Sante di Sterpeto versa 2 rasenghe di grano, come pure ad un certo calzolaio; tre quarti ne distribuisce in elemosina’.Per la verità, c’era una volta la semina novembrina, laddove si poneva il seme da marcire per tornare a germogliare a nuova vita, e magari con la protezione della croce all’inizio e al termine del campo. Poi arrivava la mietitura, la sudata mietitura e si rimuovevano gli spaventapasseri. I contadini legavano i covoni con il ‘venco’. Li ponevano dritti insieme l’uno con l’altro, appoggiati, ad evitare che la pioggia li facesse marcire. Di poi la battitura tra canti e stornelli, e la nascita di nuovi amori. Poi il frumento doveva essere mondato. Le donne, tra un canto e una preghiera, accarezzavano con l’acqua il grano. Le aie la facevano da padrone. Si vigilava a che gli animali da cortile non se ne cibassero. Veniva bagnato per togliere i semi delle erbe selvatiche e poi asciugato al sole. E poi veniva insaccato in sacchi di iuta. Ma prima di arrivare al forno e al pane bisognava andare al Mulino. Al mulino ad acqua. Veniva caricato sui basti degli asini, dei muli o sui carretti e portati al mugnaio . Ve ne erano tanti nel territorio. Solo nell’assisano erano collocati a: Ponte Grande sul Tescio, in frazione S. Maria di Lignano, ai Tre Fossi, presso S. Maria del Gualdo a Porziano, a Ponte S. Vettorino, a Santa Croce, tutti fino al 1945. Per non parlare di quelli sul Chiascio. Vi si poteva macinare grano,granoturco e biada. la grande e lenta macina, con non lontano il canto dell’acqua spezzava i chicchi di grano e spandeva in ogni dove il profumo della farina. Non di rado, non solo il mugnaio si vestiva di bianco, ma anche le donne che si affrettavano a comporla nei sacchi bianchi. Da non sottacere che presso alcune famiglie fin verso gli anni 30 del secolo scorso venivano usate le ‘macinelle’, una specie di mortaio con una ruzzola a manico che serviva a macinare per fare una farina che riusciva ruvida perché unita alla crusca. Ciò era anche l’esito di un 2 escamotage per evitare l’impopolare ed odioso dazio sul macinato che dal 1400, con alterne fasi e vicende accompagnerà il povero contadino per diversi secoli. Si legge che nel 1400 ‘ il dazio fu assunto dal duca Visconti, cui Perugia si era donato. Nel 1402 fu ripristinato e aumentato in Perugia,stretta da gravi spese militari. Il dazio sulla farina del 1594 era stato aggravato dalla tassa sul sale del 1540, alla quale i perugini reagirono, togliendolo dal pane, creando quel pane scipito, ma tanto utile agli ipertesi. Nel 1571 veniva ripristinato con la scusa della guerra contro gli Ugonotti, dal governo pontificio. Nel 1628 Alessandro VII portò la tassa sul macinato a 2 giuli a rubbio. Nel 1632 il dazio sul macinato fu imposto dal Cardinale Albornoz, in ragione di 12 denari a coppa, per far fronte alle spese per l’erezione delle rocche. Nel 1798 le truppe francesi del generale Berthier lo abolirono, ma fu reintegrato subito nel 1810, estendendolo al granoturco, cibo per molti contadini. Si legge che nel 1831 fu abolito, ma i molinari dovevano tenere le bilance bollate. La tassa fu ripristinata dal regno nel 1863, almeno per un ventennio fino al 1883.Siccome per la registrazione occorreva saper scrivere, furono chiusi almeno 400 dei mille mulini umbri,ridotti a 303 nel 1870’. Allora si stacciava, in casa, quella specie di miscuglio, e la parte restata si metteva nella pentola per aver una sorta di polenta, ’il farro’. I Frascarelli erano e sono una polentina fatta con sola farina fina. A ridurre gli effetti drammatici della mancanza di frumento e di conseguenza del pane per i poveri intervenne la istituzione dei Monti di Pietà, per espressa volontà del francescano San Bernardino da Siena, di Bernardino da Feltre, Ruberto da Lecce, di Giacomo della marca, che si adoperarono per le loro missioni popolari e per combattere l’usura. Ci piace ricordare che il primo fu creato in Perugia nel 1462, a Terni nel 1467, ad Assisi nel 1468, a Spoleto nel 1469, a Cascia nel 1474. Ma più specificatamente furono i Monti Frumentari che mirarono a distribuire grano panificato e grano in prestito per la semina da restituire al raccolto, con una maggiorazione di appena l’1,80 %, che tra l’altro era destinato a dotare le ragazze povere e virtuose che avessero intenzione di sposarsi o di entrare in convento. Gli organismi dei Monti di Pietà e Frumentari erano regolamentati da Statuti. L’articolo 13 dello Statuto Frumentario di Assisi recitava che ‘il grano si presti solo ai poveri veramente bisognosi,‘sino alla quantità di una soma gratis, senza altra sorte di mercede,pigliandone solamente il pegno o sigurtà idonea’. I due organismi furono oggetto di attenzione dalle leggi del Regno d’Italia quando nel 1862 furono aboliti e uniti alle Congregazioni di Carità nel 1865.Poi,all’inizio del secolo scorso, queste importanti istituzioni solidaristiche caddero nell’oblio e non se ne parlò più. Ma la donna continuò a fare il pane. La donna nel fare il pane non solo vi faceva il segno della croce ma ve la incideva,unendo due pezzi di arbusti scortecciati e profumati. Addirittura si preoccupava, quando cadeva accidentalmente un pezzetto di pane, di raccoglierlo e baciarlo con rispetto e riverenza. Intere generazioni hanno desiderato di averne in abbondanza. Purtroppo fino agli anni cinquanta del secolo scorso erano in pochi coloro che ne avevano a sufficienza. In tal senso lo scrittore umbro Mario Tabarrini scrive: ’non sempre questo alimento fondamentale fu presente nelle case dei nostri padri. La preparazione del pane ebbe particolare cura da parte delle nostre ave. Solo da qualche decennio la confezione industriale è passata dalle città anche in campagna. Si iniziava il giorno innanzi con l’andare al molino, preparare la legna (spine, frasche inutili), lo strofinaccio. Da Roma in poi la donna fecit lanam et panem. Per altro verso c’è chi sostiene che il Pane non veniva salato per sfuggire all’odiosa tassa sul sale che ha seguito lo stesso andamento della tassa sul macinato. Il pane si riponeva (sarebbe meglio dire si chiudeva perché razionato) nella madia e durava per 7-10 giorni. Spesso la cottura del pane si faceva tra più famiglie vicine, per risparmiare la legna. Oggi i forni campagnoli e di paese sono fuori uso : il loro pennacchio si è spento per sempre. Il pane quotidiano, invocato nella preghiera e ottenuto con duro lavoro di un anno, era cibo essenziale con qualunque companatico, ma anche come base di molti rustici:il pancotto era pane bollito in acqua salata con odore d aglio e foglie di alloro; l’acquacotta erano fette di pane nel piatto coperta di acqua bollita con sale, mentuccia e altre erbe aromatiche; la bruschetta era ed è altro piatto assai gradito ;il parraceto o panzanella era pane bagnato e condito con olio, sale, aceto, magari con pezzetti di sedano, finocchi, cipolle e ravanelli. Si riteneva peccato gettare il pane, o mettere la fila sotto sopra. Sul pezzetto di pane caduto per terra si dava un bacio‘. E non è un caso che proprio nell’ambito di questa filosofia di vita che si inserisce il 3 pane di S. Antonio Abate. Non bisogna per nulla vergognarsi di dire che la farina di grano per molti contadini umbri era un privilegio, un miraggio. La maggior parte, come d’altra parte in tutta Italia, si mangiava il pane di granturco. Sono pochi a ricordare che proprio dalla esclusività di questo alimento ne derivasse la pellagra. Una malattia che pare comparire in Umbria nel1840 e coinvolse i comuni del Trasimeno, passando per Città di Castello, a Foligno. Non rimasero immuni Orvieto e Spoleto. Una malattia debilitante che porta alla pazzia. Nel 1879 vi erano 22 comuni. Su una popolazione di127.365 abitanti bel 5.044 erano pellagrosi. Il comune più colpito fu Montone. Secondo ‘Le Città nella storia d’Italia’ di Alberto Grohman a proposito di Assisi - Santa Maria degli Angeli scrive: ’l’alimentazione dei mezzadri è nella maggior parte costituita di farina di granturco condita con sale, con la quale si formano delle focacce o torte che si cuociono in un disco di terra refrattaria riscaldata al fuoco ad una temperatura piuttosto alta. Le famiglie più comode tanto la mattina che la sera aggiungono a queste pizze anche un piatto di fagioli e di fave, di riso condito con carne di suini, di erbe cotte, di patate; invece le altre famiglie nella mattina aggiungono cipolle crude, patate ed erbe cotte, ma generalmente il più delle volte accade che la mattina si mangia soltanto la torta di granturco. Nel 1880 compare la pellagra, la malattia causata dalla povertà dell’alimentazione da disturbi dell’apparato digerente e nervoso e da eritemi; è caratteristica nelle popolazioni che si cibano quasi esclusivamente di mais’. Nel 1916 i pellagrosi di Gubbio sono addirittura 1.408, un numero piuttosto consistente’. Precisano gli autori che la causa di questa malattia è la miseria, la scarsa nutrizione, specie in montagna; per il contadino il granturco, spesso guasto perché non ben essiccato e pertanto pieno di muffe,costituisce il principale alimento di tutta la giornata e di tutti i giorni dell’anno,sotto forma di torta e di polenta; la razione giornaliera del contadino:’due parti di torta e poca erba cotta o cruda quasi scondita’. Ma oggi la situazione è completamente diversa. Addirittura c’è chi, in spirito di memoria e di ricordo del valore e della sacralità del pane ha ri/composto e recuperato una serie di ricette gastronomiche, laddove il pane raffermo, opportunamente preparato, era infatti il primo alimento dopo la lattazione e l’ultimo alimento per i vecchi. Da ciò nascono molte ricette culinarie a base di pane anche dalle condizioni economiche dei tempi passati in cui il pane il pane di farina di granturco, o di grano per i più abbienti era l’elemento fondamentale dell’alimentazione. ‘Non solo era – dice Marinella Temperoni nel suo volume “Il Pane di Marinella” anche l’alimento più nutriente e digeribile per i malati. Il pancotto,quindi, in tutte le sue variazioni regionali, accompagnava l’uomo dalla nascita alla malattia e lo salutava in vecchiaia’. Ma sarebbe riduttivo se ci limitassimo ad esaltare solo il valore del pane. Abbiamo il dovere di allarmare la società contemporanea non solo nel rifiutarne il consumismo e lo spreco, ma anche di rivalutare il senso del rispetto per il pane. Si dà tutto per scontato ed abusato. Si ha l’impressione che pochi pongano attenzione alla filiera del pane. Lo si mangia semplicemente senza minimamente riflettere su tutto ciò che c’è dietro. C’è l’idea errata che il pane sia come la manna che scende dal cielo. Ed invece, assolutamente, non è così. Anzi la manna è il dono di Colui che tutto puote, il frumento e il pane, sono invece, il frutto del lavoro dell’uomo contadino. Basterebbe ricordare la lotta per il pane in Egitto,in panem et circenses a Roma, le lotte medievali per il pane, l’uso oculato dei Monti Frumentari, il racconto manzoniano dell’assalto ai forni,la scarsità del grano nei campi inariditi, il grano bagnato dal verderame nel periodo fascista, per evitare di essere consumato, il blocco delle esportazioni del grano russo, i prezzi controllati da Atlanta. Chi controlla il grano controlla il mondo. Per cui è compito della Famiglia, della Scuola, delle Istituzioni,delle Associazioni non a promuovere la cultura della consapevolezza che il pane non è l’esito casuale della natura, ma il frutto faticoso del lavoro dell’uomo. Il pane è la risultanza di una semina a rischio, di una coltura di sei/sette mesi, di una sudata mietitura e battitura (anche se fatta con le macchine). Il pane è il frutto della terra lavorata e non incolta. La fatica dei contadini è indubbia. Quindi è indubbia anche la necessità di dover suscitare il rispetto per il pane, perché dietro c’è tanto impegno. E ogni qualvolta che si getta un pezzo di pane nella pattumiera, con esso si getta un pezzo di sostentamento per tanti bambini che il beato Giovanni Paolo II chiamava senza voce. Un tale insensato gesto è un’offesa alla carità e alla solidarietà verso tutti quei bambini del terzo mondo che muoiono, letteralmente, di fame.