Il credito in Umbria

A cura di Federico Fioravanti

Intervento di Adolfo Caldarelli

imprenditore - presidente del CIDA

 

Adolfo Caldarelli è presidente del Cida, l'associazione dei dirigenti di azienda, che in Umbria rappresenta 800 aziende industriali. Ma è anche un imprenditore. Può quindi portare la sua testimonianza diretta, sia  dal punto di vista dell’impresa e dal punto di vista del manager che invece gestisce l’azienda.

 

Sì. Ho il doppio cappello. Porto un’esperienza che si è caratterizzata nell’arco degli ultimi anni in due fronti completamente diversi. Fino al periodo pre-crisi, da dirigente, ho avuto a che fare soprattutto con le banche d’affari per operazioni di acquisizioni, quindi per operazioni internazionali, di ampio respiro.
In quell’ambito non vi nascondo che il rapporto che c’era con l’istituto di credito era un rapporto non convenzionale, un rapporto basato sulle prospettive, sulle capacità di produrre reddito attraverso una nuova iniziativa. Parliamo di operazioni straordinarie, ma anche l’attenzione, la sensibilità del bancario, nella fattispecie del management delle banche, era ben diversa da quella attuale; gli schemi erano diversi, i criteri che utilizzavano per analizzare un’operazione erano totalmente diversi rispetto a quelli utilizzati abitualmente nel credito ordinario. Quindi un’esperienza fatta in un momento di crescita, dove operazioni con effetto leva discreta potevano essere portate avanti perché c’erano prospettive di crescita.
In una fase successiva, invece, soprattutto nel periodo di crisi, quindi tra il 2009 e il 2010, mi sono occupato di assistere una serie di piccole e medie imprese del territorio umbro, soprattutto nei rapporti con il mondo bancario, banche ordinarie nella fattispecie. E attualmente, da imprenditore sono cliente di banca, quindi gestisco i rapporti con gli istituti di credito anche alla luce della mia esperienza.
Indubbiamente, ho vissuto situazioni differenti che mi permettono di avere un quadro più completo di dove stiamo andando e di quali sono i problemi che riscontriamo quotidianamente.
Prima di questo, però, vorrei darvi un dato, a livello nazionale, che mi ha colpito. L’ho tratto da una relazione di Bankitalia abbastanza recente. Anche se è aggiornato al giugno 2011, e da giugno ad oggi la situazione è ulteriormente peggiorata.
Un confronto tra secondo trimestre 2011 e ultimo trimestre 2010 ci mette di fronte ad un fatto: le sofferenze bancarie sono cresciute del 25 per cento, passando da 78 a 98 miliardi di euro; le partite incagliate sono salite del 3,7 per cento; le esposizioni ristrutturate sono cresciute dell’8,8 per cento; le esposizioni scadute o sconfinanti sono aumentate del 9,5 per cento. Il tutto in una situazione di crescita del finanziamento bancario del 2,7 per cento.
Questi numeri ci dovrebbero far riflettere, perché, come accennato dal direttore Pasca, danno un’idea chiara del peggioramento della qualità del credito a livello nazionale. Questo dato viene ulteriormente confermato a livello locale, anche se andrebbe segmentato per distinguere i vari problemi.
Problemi che – ce lo diciamo da diversi mesi – sono prevalentemente nell’edilizia dove la qualità del credito si è deteriorata di oltre il 5 per cento rispetto al resto dei settori dove, invece, è peggiorata del 2-3 per cento. Quindi gli altri settori reggono meglio rispetto a quello dell’edilizia; e se andiamo a distinguere tra Perugia e Terni, il dato peggiore è soprattutto nella provincia di Perugia con il 5,1 rispetto a Terni con il 4,7.
Quindi un sistema bancario che è in grande difficoltà nell'erogare nuovi prestiti. Ma che cosa stanno facendo le imprese a livello territoriale? Sicuramente si sono attrezzate perché hanno cercato di far fronte alle risorse, alle incombenze, alle necessità della gestione quotidiana, mettendo mano al portafoglio personale. Io ho visto imprenditori, e ne conosco diversi, che hanno fatto fronte con il patrimonio personale accumulato nell’arco degli anni.


Non tutti gli imprenditori sono così avveduti...

Certo. E’ chiaro che dobbiamo distinguere. Ma la maggior parte degli imprenditori vive con la banca. E come ricordava il collega del consorzio di garanzia, l’imprenditore è partito già con un accenno di difficoltà nel 2008, già fortemente indebitato, già con gli affidamenti utilizzati quasi al cento per cento. E si è trovato ad affrontare la crisi in un momento in cui le banche hanno smesso di aumentare i fidi, di concederne di nuovi e sono diventate più selettive nella concessione dei fidi, entrando in maniera più puntuale nei bilanci delle imprese e cercando di selezionare.
E' una diceria comune che fino al 2007, forse fino ai primi mesi del 2008, non c’era banca che non concedesse una linea di credito di 20-30 mila euro al piccolo imprenditore attraverso un’apertura di un nuovo conto corrente. Un fatto ormai abbastanza risaputo: piccoli imprenditori che, quando avevano qualche difficoltà o avevano raggiunto il limite di credito presso la banca principale, andavano nella seconda banca per aprire un nuovo conto corrente: era difficile che il direttore di banca non concedesse una linea di credito minima ma comunque sufficiente all’impresa per andare avanti.
Ovviamente, questa situazione non c’è più, è cambiata. Le banche guardano quello che fanno le altre banche e guardano lo stato complessivo dell’imprenditore. E nel complesso l’imprenditore si trova a non poter far fronte alle esigenze quotidiane dell’impresa, che non sono solo legate al rientro dei prestiti già concessi fino a quel momento, ma vengono anche accentuate da un peggioramento della situazione nei confronti della clientela, con riduzione di fatturato e con un allungamento dei tempi di pagamento.

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La crisi costringe gli imprenditori al cambiamento: di metodi, di strategie. Emerge anche il ruolo “sociale” di chi fa impresa. Quanto l’imprenditore mette nell’impresa e quanto l’imprenditore prende dall’impresa. Quanto reinveste nell'azienda.

Anche qui bisogna segmentare, distinguere gli imprenditori, innanzitutto piccoli imprenditori rispetto a imprenditori che hanno dei dipendenti, quindi grandi imprese, e poi tra imprenditori fare un’ulteriore distinzione. Indubbiamente, il piccolo imprenditore, tradizionalmente, è colui che gestisce un’impresa familiare, quindi lavora lui, e lavora di solito il resto della famiglia, e in questo ambito fare un’ulteriore distinzione tra il piccolo imprenditore, quindi che svolge il ruolo di imprenditore come se fosse un dipendente della sua azienda, mettendo tutto se stesso nell’impresa. Per cui c’è l’imprenditore sano che dà al sistema bancario come garanzia la propria casa (io ne ho visti diversi) rispetto all’imprenditore che è nullatenente (e ce ne sono tanti), che vive rischiando il patrimonio di terzi con quello che viene prestato.
Su questo le banche hanno cambiato approccio da metà 2008 ad oggi, almeno questa è la sensazione che ho avuto, segmentando appunto la clientela e distinguendo tra imprenditore e imprenditore, tra imprenditore sano e imprenditore meno sano.
E poi c’è l’imprenditore della grande impresa che, effettivamente, si è distaccato, se vogliamo, dal ruolo di imprenditore familiare, quindi si avvale di personale, di professionisti, di manager, e non solo. E in questo caso cambia anche l’approccio, perché gli stakeholders, come si usa dire, dell’impresa sono diversi, sono i dipendenti, in primis, è il tessuto sociale, la collettività del luogo, del posto, del territorio nel quale opera l’imprenditore e non solo. E qui poi nascono ulteriori problemi, che sono legati al passaggio generazionale dell’imprenditore che opera nella grande impresa e alla distinzione che ci può essere tra interesse personale nell’impresa e che si caratterizza soprattutto nell’interesse patrimoniale, quindi, della detenzione di quote dell’impresa stessa e interesse sociale della collettività, chi lavora nell’impresa.
In questo ambito, ovviamente, potremmo discutere a lungo e molto spesso riscontrare che gli interessi dell’imprenditore non coincidono più con gli interessi degli stakeholders, dei veri azionisti dell’impresa. Ci sono state proposte governative, ne ricordo una di Pietro Ichino, mi pare dell’anno scorso, sull’economia sociale, o potremmo prendere ad esempio l’economia tedesca, dove vi è una grande compartecipazione proprio di tutti gli stakeholders alla vita dell’impresa, quindi al buon funzionamento dell’impresa.

Cosa dovrebbero fare gli imprenditori per affrontare la crisi? Sicuramente non stare con le mani in mano...

Assolutamente. Cambiare strategia, riposizionarsi. Probabilmente, anche cambiare settore o comunque cercare di entrare in nuovi settori, quindi affrontare nuovi scenari.
Il problema, ripeto, è che molti imprenditori, imprenditori che lavorano da anni e che quindi hanno subito la crisi, sono entrati nella crisi già deboli. Ora si trovano in grande difficoltà. Sono quegli imprenditori che con la moratoria sono sono stati aiutati. A livello statistico, ben 190 mila piccole e medie imprese per 56 miliardi di debito.
C’è stato un intervento enorme con l’avviso comune, nella postergazione o sospensione del pagamento. Questo tipo di intervento, però, aveva un senso se limitato a un certo periodo di tempo: quello necessario per fare riprendere l’economia, per poi tornare a operare in maniera normale. Vedendo anche le analisi di Banca d’Italia il problema è che il trend di questa crisi, purtroppo, da metà dell’anno 2011 è ritornato a essere negativo.

C'erano stati segnali di ripresa nei primi mesi del 2010...

Esatto. Ma il quadro è ritornato improvvisamente negativo da metà 2011. Ora siamo in recessione Tra l’altro dopo l'ultimo  intervento governativo l’accentuarsi della recessione è matematico, per definizione, a meno che non ci siano interventi sulla crescita.
Che fare? Sicuramente fare impresa con il capitale proprio o con una forte patrimonializzazione è il modo per affrontare la crisi; sto dicendo qualcosa di pleonastico indubbiamente, però è un buon insegnamento per affrontare bene la crisi e soprattutto la contrazione di mercato. Le risorse proprie sono alla base di una sana impresa e comunque di una capacità negoziale e contrattuale nei confronti del sistema bancario, perché non dimentichiamo che lavorare con uno sforamento di fidi significa automaticamente entrare in una spirale perversa di aumento degli oneri finanziari, quindi dei costi che il sistema bancario chiede per erogare nuovo credito. Si va in extra fido, le commissioni aumentano a dismisura.
Comparando bilanci di varie imprese, tali oneri superano molto spesso il 7, l’8, addirittura il 9 per cento, che è il margine, se vogliamo, di un’impresa media. Quindi potete ben immaginare che cosa significa in termini di capacità far fronte a questa esigenza.