L’innovazione digitale nella PA: nuove forme di comunicazione e di servizio al cittadino

A cura di Federico Fioravanti

Intervento di Paolo Montesperelli

Sociologo - Docente Università di Roma “La Sapienza”

Paolo Montesperelli, sociologo, insegna all’Università di Roma La Sapienza. E' esperto di metodologie e tecniche della ricerca sociale, conosce i numeri delle indagini statistiche, li decripta. E' anche un perugino pendolare che conosce bene l’Umbria e che si è occupato del territorio in cui vive attraverso molti studi e ricerche sviluppati negli anni. La prima domanda che vorrei porre al professore è la seguente: questa lentezza che connatura la nostra regione come si può superare?


Prima di tutto va individuata la posta in gioco. E bisogna capire quali sono gli ostacoli che dovremmo cercare di superare. La posta in gioco è senza dubbio, innanzitutto, l’efficienza,  che significa anche riduzione dei costi. Questo implica non solo l’ambito della raccolta delle informazioni, ma anche la fase della decisione.
Intendo dire che i costi si riducono in presenza di decisioni più partecipate, purché non siano rituali. Quindi il mio punto di vista potremmo collocarlo agli antipodi di una visione, come dire, tecnocratica e verticistica.
Ma la posta in gioco è anche un’altra: l’opinione pubblica non ama distinguere fra articolazioni della Pubblica Amministrazione, quella centrale, quella periferica, gli enti locali eccetera eccetera.
Una scarsa innovazione di alcune componenti della Pubblica Amministrazione viene imputata molto più estesamente a tutta la Pubblica Amministrazione e ancora più estesamente, direi, all’insieme del ceto politico. Quindi la posta in gioco, in ultima analisi, è la crisi di consenso.
Per cui siamo nel pieno dell’attualità, della cronaca e dei processi sociali che attraversano il nostro sistema di vita.
Quali sono gli elementi che rallentano questa vitale innovazione così importante? Ne cito solo tre, molto a flash.
Il primo: l’intero nostro sistema locale – parlo ovviamente dell’Umbria – riflette poco su se stesso. Ce lo sta dicendo, da tempo, un’ampia gamma di indicatori. Noi siamo una società che riflette poco su se stessa, con tutte le dovute eccezioni, per carità, ma sto individuando una tendenza generale.
Questo fatto ha reso macroscopico un divario, a mio avviso, crescente, di cui soffre la nostra società regionale.
Perché, da una parte, la struttura economica e sociale è profondamente mutata, ma molto più lentamente sono mutate le chiavi di lettura di questo mutamento. E ciò significa un divario non solo negli occhiali attraverso i quali noi vediamo cosa sta capitando nella nostra società locale. E' inadeguato anche l’insieme di strumenti di governo di questo mutamento.
Ma c'è un secondo elemento. Nel frattempo, è avvenuta una rivoluzione, una rivoluzione tanto radicale quanto silenziosa, che ha scosso dalle fondamenta la nostra società, la nostra Umbria.
Che cosa è questa rivoluzione silenziosa? E’ che, mentre un tempo, per migliaia di anni, sono state le generazioni anziane a trasmettere le conoscenze a quelle più giovani, oggi il rapporto si è quasi ribaltato, soprattutto per quanto riguarda le nuove tecnologie. E questo ha introdotto dei cambiamenti non solo nei consumi, nell’uso delle nuove tecnologie, ma nel modo stesso di intendere la realtà, nell’accezione più ampia di come bisogna vedere il mondo. E questo mutamento, che a mio avviso è alle fondamenta della conoscenza delle nuove generazioni, si è infiltrato nella radice più profonda, sin nel modo stesso di concepire lo spazio e il tempo, le categorie kantiane, qualcuno potrebbe dire. Quindi, la base stessa della nostra conoscenza.
L’Umbria, che, come giustamente è stato ricordato, è una regione particolarmente anziana di una nazione particolarmente anziana rispetto all’insieme dell’Europa, certamente soffre in modo particolare questo divario fra le generazioni. Una cesura che è culturale e, torno a dire, anche antropologica.
Questo divario si è infiltrato nel linguaggio stesso e lo ha cambiato. Perciò la Pubblica Amministrazione, per dialogare con i cittadini, deve innanzitutto farsi più poliglotta.
Terzo e ultimo punto: la nostra regione è una delle più colpite dalla crisi – e questo, ahimè, lo sappiamo – ma la crisi, da un punto di vista sociologico, vuol dire  innanzitutto la crescita delle disuguaglianze.
Questo l’aumento delle disuguaglianze sociali disperde la fiducia, la capacità di relazione, riduce i rapporti e squilibra la comunicazione.  
Allora non solo si comunica di meno (fenomeno del digital divide), ma si ha sempre meno voglia di comunicare. Rispetto a questi ostacoli, che secondo me sono significativi, ci sono però, anche nel nostro panorama, dei segni di speranza.

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I numeri e le statistiche denunciano un ritardo dell'Umbria. Un divario da colmare per non perdere il treno della innovazione digitale. Ma tra tanti dati negativi, ci sono segnali di speranza?

Dentro il problema c’è anche la cura: il segno di speranza sono proprio le nuove generazioni, i “nativi digitali”, come qualcuno ha detto. Certo, siamo a livello puramente di alfabetizzazione, ma l’alfabetizzazione è requisito indispensabile per scrivere grandi romanzi, quindi che già sappiano qualcosa è qualcosa di molto importante. Pensiamo anche da dove siamo partiti. Io, prima di passare all’Università, lavoravo nella pubblica amministrazione. In Regione, negli Anni Novanta, c’era qualche dirigente che riteneva che il cellulare fosse uno strumento del capitalismo americano e quindi che non si dovesse usare.

Fuori i nomi...

Si dice il peccato ma non il peccatore. Però, in ogni caso, credo che un po’ di passi avanti siano stati fatti. Ma il vero balzo in avanti è affidato soprattutto alle nuove generazioni. Noi siamo solo degli "immigrati" nel mondo della digitalizzazione. Loro, i ragazzi nati negli Anni Novanta, sono i nativi digitali. Debbo dire, però, che anche gli adulti, e perfino gli anziani, offrono degli elementi di speranza. Per esempio, l’utilizzo della Rete trova gli anziani, che superano i giovani almeno su un aspetto, cioè quello della lettura dei quotidiani online. Sarà poco, sarà che i giovani non amano i quotidiani in generale, ma insomma questo è un elemento da considerare.
Secondo elemento di speranza: un tempo, la nostra società regionale era molto coesa, era anche molto uniforme, perché in gran parte coincidevano il sistema politico, il sistema economico e il sistema sociale. Questi tre sistemi venivano contemporaneamente innervati da rapporti di fiducia che si basavano su relazioni interpersonali, cioè su una dimensione che noi potremmo chiamare “pre-ideologica” o “post-ideologica”: ci si incontrava e si decideva in gran parte in Corso Vannucci (sembra di parlare di due secoli fa ma era semplicemente qualche decennio fa). Oggi la nostra società è andata fuori squadra. Si avverte dunque la necessità di una maggiore comunicazione, che attraversi il nostro sistema locale. Ormai è chiaro che la realtà ce lo impone: o noi cambiamo le cose o le cose cambieranno noi.
Terzo elemento, anche qui molto di sfondo, ma non direi così periferico: l’identificazione territoriale. L'influenza della nostra civiltà comunale fa parte di noi, di ciascuno di noi: il paesaggio, la piazza, la fontana descrivono chi siamo. C’è una stretta relazione tra l’identificazione territoriale e la partecipazione civica, compreso il dialogo fra cittadino e pubblica amministrazione. E' un legame forte. Se viene meno l’identificazione territoriale, viene meno anche la partecipazione civica. Questo ci dovrebbe portare a dire che dovremmo cercare, nella nostra Umbria, di contrastare l’urbanistica casuale, la moltiplicazione di "non luoghi", la banalizzazione del paesaggio. Proprio perché, in questa maniera, la partecipazione fra Istituzioni e cittadini si rialimenta e può rigenerarsi. E in questo la pubblica amministrazione ha un ruolo importante, per riscoprire e valorizzare la tradizione, anche utilizzando le nuove tecnologie, che anche da questo punto di vista sono strategiche. Non per una logica museale nel senso peggiore del termine: la tradizione e la nostra identità collettiva e personale, è soprattutto un’identità territoriale.
Quarto e ultimo punto: in realtà, tramite la Rete, si sta incrementando la partecipazione civica, sia quella in senso tradizionale sia quella più peculiare della Rete stessa. Alcuni dati, in questo senso, sono confortanti, Certo, la tendenza ancora non ci può assolutamente far dormire sugli allori, perché gli allori sono ancora foglioline che devono crescere, ma insomma, non è uno scenario puramente drammatico.
Questa tendenza si ricollega, a mio avviso, ad un'altra ancora più generale, che riguarda, per l’appunto, il dialogo fra il cittadino e le istituzioni pubbliche nella nostra Regione: è cresciuta anche in Umbria l’autonomia della società civile, soprattutto nelle forme più organizzate. Faccio riferimento all’associazionismo e alle varie forme di volontariato. L’origine di questo fenomeno risale, anche nella nostra regione, alla stagione di Mani Pulite, che pure ha semplicemente lambito la nostra regione e che ha portato comunque a ricercare nella polis un altro tipo di impegno, attraverso altri canali meno inquinati.
Oggi il successo evidente di questa maggiore autonomia della società civile è determinato non dal fatto che il volontariato e l’associazionismo fanno la “crocerossina” del sociale, perché non è affatto così, né che debbano fare le supplenti del pubblico, e anche del for profit. In realtà mi sembra che il ruolo strategico di queste forme sia nel testimoniare la capacità di tenere insieme le relazioni, nella vasta gamma di canali che possono utilizzare queste relazioni, e l’interesse pubblico. Secondo delle logiche diverse dal pubblico, ma con obiettivi comuni al pubblico.
Queste sono quattro ragioni, ma se ne possono indicare molto altre, che ci stanno dicendo: la realtà fa pressione, la strada è irreversibile.
Ma qual è, anche qui, la posta in gioco? Sono i tempi. Corriamo il rischio di marciare in direzione giusta ma in maniera troppo lenta e quindi di perdere il treno. Speriamo di no.