Percorsi per l'internazionalizzazione del sistema Umbria

A cura di Federico Fioravanti

Intervento di Alessandro Pettinato

Vice Segretario Generale Unioncamere

Provo a fare una rapidissima analisi su quello che non è stato fatto negli ultimi anni e che ora comincia invece a essere abbozzato. Cosa non è stato fatto? In un momento in cui si passava da una moneta ovviamente oscillante per la svalutazione della lira a un rapporto invece obbligato con l’euro, il nostro export ha subito delle flessioni dovute al cambio sfavorevole della valuta europea. E con un euro molto forte, bene o male ha tenuto. In quel periodo, il nostro Paese ha vissuto anni in cui vi era una competizione tra i territori. Perché ciascuno puntava a vendere pezzi del proprio territorio, della propria manifattura, del proprio export, cercando di togliere, in qualche maniera, peso ai territori limitrofi. Pensiamo alle fiere: la presenza era incredibilmente parcellizzata: regioni, categorie, Camere di Commercio, associazioni, Governo centrale, ICE... Pensiamo alle politiche di attrazione degli investimenti esteri con una parcellizzazione di strategie, ma anche di regole che disorientavano completamente gli investimenti dall’estero. E alle politiche di incentivazione (per quel poco che ne è rimasto) che erano completamente separate tra loroe. Ebbene, tutto ciò ha sfavorito in modo evidente un’azione complessiva e ha danneggiato, chiaramente, non tanto l’immagine, che comunque era già abbastanza compromessa, quanto i risultati complessivi delle esportazioni del nostro Paese.
Nonostante questo, si è arrivati in una fase congiunturale, che ormai da tre anni dura in maniera evidente. E l'export tiene. Anzi, è l’ancora di salvezza del nostro Prodotto interno lordo. Anche se non so ancora per quanto, anche perché i dati relativi ai prossimi mesi che arrivano da alcune regioni forti, come Veneto, Piemonte e Lombardia, non sono poi così incoraggianti.
Ma cos’è successo nei mesi scorsi? È successo che ci si è resi conto, probabilmente, che questa politica parcellizzata non pagava più, anzi, danneggiava, in modo radicale, tutto il sistema del Made in Italy.
Le Camere di Commercio, le Regioni e le categorie stanno ora cercando una strada nuova. Provano a mettere insieme le forze e a coordinare le loro politiche. E qualche risultato comincia ad arrivare. Certo, l'euro indebolito ha favorito certamente le esportazioni del nostro Paese. Ma io credo che il grosso del lavoro debba ancora essere fatto: se pensiamo che tutto questo nuovo sforzo sia sufficiente a ridare slancio al nostro export, ci illudiamo.
Non appena l’euro riprenderà quota, ho l’impressione che questi risultati, sicuramente positivi, dovuti ad alcune nostre imprese particolarmente vitali, non reggeranno. Anche se l’Europa vale ancora due terzi del nostro export. Teniamo presente che le imprese che operano in modo abituale e con costanza sui mercati internazionali sono 10.500. Stimiamo che ci siano ancora 70.000 aziende che potrebbero seguirle. Ma si tirano indietro, più che per incapacità, perché non trovano gli strumenti o chi le accompagna.


Allora cosa bisogna fare?

Ho l’impressione che serva intervenire su altri due o tre grandi filoni di lavoro. Il primo, oltre a un maggior coordinamento, è la capacità di saper dare risorse alle imprese che vogliono investire sul mercato internazionale. Cito sempre un esempio: il governo ha rifinanziato giustamente uno strumento importantissimo, che è il Fondo centrale di garanzia, che permette alle imprese di poter ricevere risorse dal mondo bancario coperte dalla garanzia pubblica: nel caso in cui io non riesca ad adempiere al mio debito, interviene il sistema dei confidi o la garanzia. Queste operazioni non sono mai finalizzate a garantire le eventuali insolvenze di chi scommette i propri soldi andando a investire sull’estero. Se si tentasse di indirizzare queste risorse, che in un momento di congiuntura sfavorevole chiaramente devono andare a coprire anche il debito a breve, se destinassimo finanziamenti verso chi, in modo meritorio, investe il proprio capitale o il proprio patrimonio familiare su nuovi mercati, certamente otterremmo un consolidamento di molte imprese che puntano sulla internazionalizzazione.
Secondo aspetto. Le aggregazioni, le reti di impresa, o il modello dei consorzi. Scegliete voi quale potrebbe essere la soluzione migliore. Ma a mio avviso, in questo momento, sul tema delle reti di impresa non c'è una una politica finalizzata a favorire le imprese che si aggregano. A parte la defiscalizzazione, che però credo sia una carta ancora troppo debole da giocare. Su circa duemila contratti di rete di imprese che operano all'estero, circa la metà puntano all'oriente. Ma lo strumento non è rivolto ad incentivare gli sforzi di chi lavora sull'estero.
Terzo aspetto, che forse è il più difficile ma anche il più importante. Io non trovo nel nostro Paese strutture che vadano a formare operatori per l’estero, tranne sporadici casi. Penso alle Camere di commercio o alle Camere all’estero, di cui conosco il lavoro, oppure a qualche attività molto ridotta che viene portata avanti da alcune università. Ma in generale non c'è una figura professionale formata per assistere la piccola impresa che affronta i mercati internazionali. In un momento in cui il sistema del lavoro pubblico sta, ahimè, abbandonando alcune professionalità, perché il mercato del lavoro è quello che è, sarebbe fondamentale provare a recuperare queste professionalità per metterle in rete con le piccole imprese.


Rispetto al totale delle imprese italiane, sono ancora poche le aziende che esportano.

Certo, possono e devono crescere. Ma attenzione ad un altro aspetto: non dobbiamo pensare che aumentando il numero delle aziende che esportano risolveremo i problemi dell'export italiano. L'Umbria ha 2.800 aziende che operano sui mercati internazionali per un valore di più di 3.000 milioni di euro. Ma il problema non è il numero o la quantità dell'export. Per queste imprese è necessario soprattutto rendere stabili i mercati internazionali, far sì che questi mercati non siano saltuari, occasionali. Il dato dell’Umbria poi, chiaramente, è viziato anche dalle performance dell’acciaio: se Terni aumenta il valore della produzione è evidente che i valori dell'export schizzano in alto. Il vero problema è consolidare i rapporti. Sarà però difficile provare a rendere più solida e più penetrante la presenza delle imprese umbre ed italiane senza un vero piano, una linea di indirizzo comune che per ora non c'è, né da parte del governo né da parte dell'Ice.

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Una riflessione sul discorso delle reti. Questa definizione, “reti di impresa” la ripetiamo spesso, come un mantra che è buono per ogni occasione. Però in Umbria, come in tutto il Paese, mettere insieme le imprese, così come i singoli individui, è difficile. Cosa si può fare per valorizzare, per imporre in qualche modo le reti e per dare linfa per esempio ai cluster? Come passare dalla teoria alla pratica?

Voglio fare un esempio per parlare di uno strumento che potrebbe aiutare a migliorare nei numeri, nella qualità, nella consistenza e anche nella stabilità il modello di export italiano. Faccio una domanda banalissima: oggi, a casa, quanti di voi hanno una rete a banda larga che permette di scaricare dati sopra i 5 mega? Penso nessuno. Nessuno. Arriviamo a 2, a 1,5 mega appena. In Germania, ad esempio, il 70% dei cittadini e delle imprese viaggia sui 10 mega.
Riflettiamo su un fatto: il commercio elettronico in Italia tocca circa solo il 10% delle imprese medie o medio-grandi e il 5% delle piccole imprese. E teniamo presente che il 90% delle imprese che esportano sono piccole imprese fatte almeno per la metà da giovani sotto i 35 anni, notoriamente abituati a usare lo strumento del commercio elettronico perché è uno strumento che si confà di più alla loro generazione.
L'urgenza è evidente: questo Paese dovrebbe riuscire a fare un saltino di qualità, uso un termine banale, passando dal doppino in rame alla fibra ottica. Dovrebbe portare la banda larga non solo sulle dieci grandi metropoli, dove non c’è il 5 mega (a Roma arriviamo a due e mezzo) ma anche nei centri minori, dove la piccola impresa e la media impresa, l’industria manifatturiera e quelle dei servizi sono presenti in maniera forte e dove cresce la voglia di confrontarsi con i mercati internazionali, fossero pure quelli europei.
A proposito di imprese medie voglio ricordare i numeri: in Italia sono solo 4100, non 41.000. E i due terzi di queste aziende esportano.
Quindi il mercato domestico interno può crescere non con la missione o la fiera, strumenti nobili ma forse un po’ datati, anche perché frutto di tentazioni di viaggi avventurosi ma grazie al commercio elettronico.
Questa è la strada che potrebbe essere messa in piedi rapidamente se solo le due, tre grandi compagnie che oggi controllano questo mercato si decidessero a investire un po’ di più, visto che hanno avuto comunque politiche di incentivazione pesanti  da parte dell’operatore pubblico che c’era venti anni fa e che in qualche maniera oggi ha fatto sì che queste strutture potessero investire. Ma in Italia, purtroppo, non è andata così. Su questo tema, in Francia, l’intervento della Cassa Depositi ha favorito la banda larga negli ultimi cinque anni. E si è arrivati all’80% dei territori coperti con livelli di megabyte decisamente maggiori dei nostri.
Sono queste le banalissime cose che servono all'imprenditore. Così come gli interventi legati ai consumi ed al costo dell’energia per incrementare, migliorare e consolidare i rapporti con i mercati internazionali. Sono numeri, lo capisco bene, banali, sciocchi, non sono certamente ragionamenti così interessanti e intelligenti così come ho sentito, ma possono trasformarsi in azioni concrete, che già domani darebbero una risposta alle imprese che vorrebbero mettersi anche in rete per operare fuori. Questi sono i temi sui quali chi ci governa dovrebbe intervenire prima possibile.