Il digitale? E' un'impresa

A cura di Federico Fioravanti

Intervento di Fabio Fulvio

Esperto di marketing, Responsabile Settore Politiche per lo Sviluppo Confcommercio Italia

Se analizziamo la situazione in modo realistico e guardiamo i numeri, ci accorgiamo che il titolo dato a questo forum “Il Digitale? E’ un’impresa” è più che giustificato. L’approccio della maggior parte delle imprese verso la digitalizzazione della loro attività è permeato ancora di paura e di diffidenza.

FABIO FULVIO, Esperto di marketing, responsabile del settore Politiche per lo Sviluppo di Confcommercio

Sì, c’è molta diffidenza e proprio a causa dei numeri, perché purtroppo la realtà dipende anche dalle imprese. La realtà è che le piccole e medie hanno paura di internet. Sembra quasi che il mondo digitale sia visto più come una minaccia che una vera opportunità. Ma se siamo onesti, dobbiamo anche dire che questa paura è in parte giustificata. Certo è sicuramente vero che siamo di fronte a una eccezionale opportunità. Ma i numeri parlano. E ci dicono che il fatturato dell’e-commerce è ormai di 13 miliardi di euro.

Questo dato merita una riflessione. Nessuno, appena dieci anni fa, avrebbe potuto pensare che in alcuni settori economici ci sarebbero state crescite esponenziali di questo tipo. Faccio l’esempio più classico: quello dell’abbigliamento. Chi credeva nell’e-commerce in questo settore era quasi visto come un pazzo. Perché la mia giacca la devo provare, la devo sentire, devo toccare il tessuto ecc. ecc. Motivazioni comprensibili. Per cui, la maggior parte di noi, era convinta che l’abbigliamento non si poteva vendere on line. I dati invece ci dicono che è il secondo settore di acquisto nell’Italia e nel mondo. Negli ultimi nove anni c’è stata una vera e propria “esplosione” . Dopo il turismo, l’abbigliamento è il settore che è cresciuto di più. Dobbiamo anche considerare che nel turismo c’è molta biglietteria. E che il turismo, negli anni precedenti, viveva di pagamenti anticipati.

Quando si prenotava un albergo, si mandava un fax e poi si pagava una caparra. Mando il fax e pago la caparra. Quindi pago prima e usufruisco del servizio dopo. Questa cosa ha aiutato il turismo a usare la Rete. Anche perché pagare prima e usufruire dopo è una cosa che su internet funziona bene.

Il discorso riguardo l’abbigliamento è più complicato. Non si puntava sull’e-commerce perché per acquistare un vestito si deve andare in un negozio dove provare il capo e poi pagare contestualmente. Invece ora funziona. Si comprano vestiti su internet. Purtroppo, dico io, che rappresento Confcommercio.

Ma guardiamo i numeri: 13 miliardi di euro è il giro d’affari raggiunto dall’e-commerce in Italia alla fine del 2014.

Attenzione: se guardiamo la “torta”, ci accorgiamo che questo giro d’affari, di fatto, è diviso tra dot-com, aziende di servizi (soprattutto nel turismo, quindi Alitalia o Trenitalia che vendono biglietti online), tradizionali del commercio (ma stiamo parlando di grande distribuzione) e tradizionali della produzione. Chi manca? Manca il negozio. Cioè questo numero non è fatto dai negozi. Certo, per carità, qualche negozio vende su internet. Ma rispetto a 13 miliardi di euro i numeri sono così piccoli da essere ininfluenti. E poi c’è il tema del Mobile. Ci sono 7 miliardi di telefonini in giro. Che cosa fa la gente che vuole fare acquisti con il Mobile?

Purtroppo fa una brutta per un negoziante, ovvero entra in un negozio con questo telefonino, fotografa, invia ad Amazon, o a qualcun altro, e riceve una offerta del prodotto per acquistarlo. C’è un servizio apposito, denominato Amazon Price Check. In America non si fotografa nemmeno l’oggetto, si fa lo scan del codice a barre, che è ancora più preciso perché così non posso sbagliare. Faccio lo scan, identifico il prodotto in maniera molto precisa, lo invio a Amazon. E in tempo reale Amazon mi dà un prezzo. Cioè mi dicesì, ce l’ho anch’io questo prodotto. A quanto lo hai trovato? A 100 euro? Io ce l’ho a 80. Lo compri? Clicca qui e compri. Sei dentro al negozio. Questo tema, che la letteratura chiama “showrooming”, lo abbiamo voluto chiamare “Topo”, usando anche un collegamento con un acronimo che invece era quello accennato da lei, cioè la gente che cerca su internet, “research online”, ma poi compra nel negozio, e questo è il Ropo. Il Ropo è una cosa positiva per i negozi perché c’è gente che va su internet, ma poi viene a comprare nei negozi. Il “Topo”, è invece il try offline. Quindi mi provo un vestito poi però trovo una scusa e alla chetichella me lo vado a comprare su internet. Così il commerciante è sfruttato. Amazon Price Check già funziona in America. Fra poco arriverà anche da noi. E’ inutile nascondere la testa sotto la sabbia. Qualcosa va fatto.

C’ è una ricerca del Centre for Retail Research in Inghilterra. Prevede che nel 2018 in Inghilterra, e la cosa è dovuta anche a Internet, il numero di negozi si ridurrà del 22%: da 282.000 a 220.000. Se pensiamo che in Italia i negozi sono 700.000, il 22% rappresenta un numero importante. In Inghilterra si perderanno 316.000 posti di lavoro. In quel le quote di vendita online saliranno dal 13% al 21%. Da noi la quota attuale è il 2%. Il 41% delle cittadine inglesi subirà un declino dovuto alla difficoltà dei negozi a rimanere sul mercato. È chiaro che quando chiudono i negozi nel centro storico di una cittadina, la vita è meno bella, la cittadina diventa più buia…

Dove va l’Italia? Il 2% delle vendite retail oggi in Italia avviene su internet. Quei 13 miliardi quindi sono pochi. L’Inghilterra, nei prossimi anni, passerà da quota 13 a quota 21.

Per questo abbiamo voluto scrivere questo libro, che fa parte della collana “Le Bussole” di Confcommercio. Sono pubblicazioni pratiche e operative pensate per i nostri associati che vogliono innovare la loro attività. Servono a capire  cosa si può fare. Perché molte cose si possono fare.

“Il negozio digitale”: è il titolo di uno dei libri dedicati alle imprese editi da Confcommercio. E’ stato preceduto da altre pubblicazioni pensate per i bar, la ristorazione, i negozi alimentari, gli alberghi e la internazionalizzazione delle imprese. Un utile manuale, con concrete “istruzioni per l’uso”. Proviamo, in sintesi, a capire come affrontare la sfida dell’ e-commerce.

Prima regola: imparare a misurare le performance. Molti dei nostri negozianti non hanno ben chiaro come funziona il loro business, ma soprattutto non lo misurano. Indici, margini di rotazione, tassi di conversione e via dicendo, sono tante cose che il negoziante deve saper fare. Oggi, se il concorrente è Amazon, Amazon sa del suo navigatore, di chi passa sul suo sito. Sa quanto tempo si ferma, quante pagine visita, sa cosa compra dopo aver visto cosa, conosce i percorsi dell’utente.

Ora, non è proprio possibile che un negoziante non sappia quante persone entrino nel punto vendita in una settimana. Non è possibile che non sappia chi viene a casa sua. Faccio un esempio concreto, riferito alla mia breve permanenza a Perugia. Ho dormito in un ottimo albergo. Ho fatto l’acquisto attraverso Booking che mi offriva la stanza a 108 euro. Ho telefonato all’albergo che mi ha chiesto 140 euro. Ma io sono una mosca bianca. Perché oggi tutti passano attraverso le cosiddette OTA (Online Travel Agencies). Ma quando arriva la mosca bianca, un cliente che vi chiama, non potete dire che la vostra stanza costa più di quello che sta scritto lì. Sta lì, ce l’avete, è la vostra stanza, non è un altro prodotto. Perché io posso capire il negoziante che vende un prodotto che Amazon vende a 80 e lui smercia a 100. Dietro ci sono molti motivi, magazzino e altro. Ma la mia stanza d’albergo la vendo io, non posso non tenere traccia di quello che succede. Perciò quando arriva il cliente che ti chiama, fagli una proposta, magari lo stesso prezzo, magari aggiungi un voucher per andare in sauna. Risparmi anche 30 euro di commissioni…

Quindi gestire la performance – vale per il negozio ma anche per l’albergo – significa mantenere sotto controllo quello che succede, quello che succede nel mio negozio, i prodotti venduti, quello che succede nel mio albergo, con le camere che vendo.

Il secondo filone è quello di sviluppare una strategia offline nel negozio. Bisogna saper fare delle cose nel negozio, nel punto vendita, perché se la gente va a comprare su internet, è perché sul punto vendita non trova quello che cerca, o non lo trova uguale. Ci sono tante cose che si possono fare, che nel libro sono descritte abbastanza bene, ma che si possono fare ancora di più nei corsi di formazione di Confcommercio: posizionamento, assortimento fornitori, layout, gestione dello spazio e della vetrina.

Un punto vendita fisico ha un grosso vantaggio rispetto ad Amazon: ci sono delle persone in carne e ossa, c’è una vetrina, c’è un negozio, c’è uno spazio fisico vero. Allora se non sfruttiamo bene quello – e significa farlo anche con tecnologie digitali in certi casi ma anche senza, o entrambe le cose – chiaramente, la gente, a parità di prezzo, o magari con prezzo leggermente più basso, va a comprare su internet. Io devo riuscire a coinvolgere il cliente e ho degli strumenti per farlo.

Il terzo tema è tutto quello che abbiamo detto oggi: sviluppare una strategia online perché se la gente cerca su internet, io almeno un sito vetrina lo devo avere. E questo sito deve essere ben indicizzato perché quando c’è il “Ropo”, cioè chi cerca online e poi magari verrebbe anche a comprare nel negozio, se non appaio nelle prime pagine della ricerca non ci sono. Dopodiché, c’è il resto: le applicazioni, il social, le newsletter, tutto quello che posso aggiungere per convogliare la gente da internet nel mio negozio. Questo è un pochino più complicato, non tantissimo, nel senso che costa poco ma dopo bisogna metterci testa e voglia e  bisogna aggiornare le pagine.

È inutile che faccia una cosa su Facebook, che mi costerà anche venti euro, e poi la lascio lì, perché andare su Facebook e trovare una pagina, il cui ultimo aggiornamento è di tre mesi fa, è come dire: meglio non esserci! Quindi è importante farlo ma è importante poi starci, e starci significa metterci testa, persone, risorse. In sostanza deve esserci qualcuno che ci lavora.

Ancora più difficile – lo abbiamo sentito dal commerciante che vende olio – è l’e-commerce vero e proprio perché è come aprire un altro negozio. Ci vogliono tempo, costanza e fatica.

La gestione del negozio non è così semplice. Sono richieste tutta una serie di competenze. Quali sono gli errori da evitare?

Troppi negozianti sono poco analitici. Basta dare un’occhiata agli indicatori di performance che usano i negozi. Abbiamo fatto una ricerca ad hoc: qual è il maggiore indicatore? Il 44% dei commercianti pensa che sia l’analisi degli incassi giornalieri. Come dire: apro il cassetto e vedo quanti soldi ho. È importantissimo, gli americani dicono “cash is king”. Ma è una indicazione un po’ troppo sintetica, perché magari questa settimana è andata meglio, non perché siano entrate più persone, e io magari ho speso soldi in pubblicità, com’è andata la campagna pubblicitaria sul giornale locale? E’ andata bene, sono entrati più soldi. Un attimo. Basta? Forse non basta, perché magari le persone che sono entrate nel negozio in quella settimana in cui ho fatto la pubblicità sono le stesse della settimana prima. E allora ho buttato i soldi. Però perché sono andate meglio le cose? Perché nel cassetto ho più soldi? Perché la commessa è stata più brava, perché ha fatto una migliore conversione di quelli che entravano e quelli che hanno comprato, perché è stata più brava? Magari perché ha fatto un corso di formazione in associazione, o magari perché si sposa, è più felice, o magari perché oggi è una bella giornata.

Quindi a vedere gli incassi giornalieri e non vedere come sono composti, cioè quante persone entrano, quante di queste comprano, che cosa compra, quant’è il ticket medio, non è difficile da fare. Anche la tecnologia aiuta, il digitale può aiutare, per fare semplici analisi con investimenti relativamente bassi.

Mi aiuta a non fare errori perché in quel caso l’errore sarebbe doppio: comprerei un’altra pagina di pubblicità perché dicono che è andata bene e invece non premierei la commessa. Commetto un errore doppio perché ho guardato solo un indicatore troppo sintetico.

Quali sono gli indicatori che il negoziante deve controllare?

Ce ne sono molti, tipici del retail. Ad esempio il rapporto “incassi al metro quadro”, che la grande distribuzione utilizza quasi ora per ora, lo usano solo il 3,6% dei commercianti medio-piccoli. Quello è l’indicatore principe del retail perché utilizzo metri quadri per vendere.

C’è poi qualcosa di peggio: il 43% dei piccoli-medi commercianti addirittura non usa nessuno degli indicatori di performance.

Ma allora che cosa fanno? Bella domanda, alla quale ogni imprenditore dovrebbe cercare una risposta.

Vorrei riportarvi altre piccole osservazioni. Per esempio, la gestione scientifica dello spazio e delle vetrine. Anche in quel caso fare una vetrina è un 20% creatività e 80% regole. Questo 80% di regole, si possono imparare tranquillamente, non bisogna essere dei geni per fare una vetrina. Il bravo vetrinista è un genio, ma ci mette anche quel 20% in più. L’80% sono regole che si possono apprendere. Andate a fare un corso di formazione e imparate le regole che aiutano a capire come gestire bene una vetrina. E quando entrate in un negozio con una vetrina fatta bene, con una gestione degli spazi corretta, proporzionata, armonica, con I volumi, con I colori messi al posto giusto, la differenza la sentite. E questo è un punto di forza del negozio fisico perché questo è quello che distingue il nostro associato da Amazon, anche se gestire vetrine e spazi si può imparare.

Ancora: imparare a evidenziare i prodotti in vendita. Impariamo da Farinetti, per esempio, che è un grande uomo di marketing: lui mette ovunque note illustrative. Perché le cose vanno raccontate. La gente le vuole sapere, anche perché se non le raccontate voi, va a comprarle in un freddo sito internet.

Nel libro ci sono degli esempi molto semplici, come quello di mettere i cosiddetti shelf talkers, le indicazioni dei prodotti. È scientificamente provato:  mettete in un punto sullo scaffale la descrizione del prodotto. Raccontate un po’, sappiate un po’ coinvolgere il consumatore. Alla fine della settimana di quel prodotto ne avrete venduto di più. Altri esempi? Servizi  personalizzati a comunità di clienti. Quando compri una scarpa – e lo fa Asics ma anche negozi di cinquanta metri quadri – ti faccio correre su un tapis roulant, a seconda di come metti il piede, a seconda di come lo appoggi, a seconda di qual è il tuo grado di allenamento, c’è una delle tante scarpe che vendo che va meglio rispetto a un’altra. Quindi non compro una scarpa, compro una consulenza sulla scarpa che vende.

Negozi di articoli sportivi come questi fanno anche delle community di clienti, che è un aspetto virtuale ma anche reale. Anzi, è molto più importante una comunità di persone fisiche piuttosto che una comunità fredda sul sito. E allora la gente che compra le scarpe che cosa ci fa con le scarpe? Corre. Allora un negozio che vende scarpe perché non organizza delle corse? Perché non organizza delle attività in cui si corre tutti insieme? Perché non apre magari (i migliori lo fanno) delle associazioni sportive, dove poi la domenica si va a fare le maratone o le corse? Chi lo fa a quel punto non ha più dei clienti, ha degli associati, delle persone che stanno con lui per un motivo.

È importantissimo il social, ma bisogna fare attenzione: i social non sono strumenti di marketing, non sono mezzi pubblicitari, sono piattaforme di comunicazione. Il che significa che se metto qualcosa su Facebook, la gente mi risponde, e quindi poi io poi devo rispondere. Sarà come stare al telefono. Quindi sulla strada dei social network bisogna investire con le idee, il livello di servizio e le risorse.

Ma come saranno i negozi tra dieci anni?

Molti pensano che non esisteranno più, che ci saranno solo consulenti e che si venderà tutto online. In realtà, la maggioranza della popolazione, ma anche dei negozianti, crede che esisteranno ancora. Ma sopravviveranno solo quelli che saranno in grado di emozionare e coinvolgere, attraverso il digitale e anche con altre attività. Il negoziante, comunque, conta ancora. Lo dice anche il presidente di EBay, che sembrerebbe essere la persona più vicina al mondo dell’online: il consumatore non vuole solo comprare online, vuole il cosiddetto “multicanale”. Gli imprenditori dovranno tenerne conto.

 

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