VISIONI D'IMPRESA

30 giugno 2013

Come metto da parte la moda convenzionale. Intervista a Luca Laurini

di Andrea Baffoni

Dieci anni fa, nel giugno 2003, nasceva Label Under Construction, marchio innovativo di capi d’abbigliamento ideato da Luca Ragni, in arte Luca Laurini (in omaggio alla madre Elsa Laurini a cui deve la sua vena creativa). La srl s.r.l., proprietaria del marchio Label Under Construction, nasce come ramo sperimentale del Maglificio San Marco, azienda creata dal padre, Adriano Ragni. Avviata da sole due persone, la società conta oggi quindici dipendenti e una produzione limitata ma di alta qualità, inserita in un mercato internazionale che va dai paesi asiatici, Cina e Giappone – quest’ultimo è stato il primo e, ancora oggi, il partner più ricettivo – fino alla lontana Australia, passando attraverso Europa e Stati Uniti. Dei quarantatre clienti sparsi in tutto il mondo solo cinque sono italiani e ciò a conferma della difficoltà, insita nel prodotto, d’imporsi nel mercato nazionale. Difficoltà dovuta essenzialmente agli alti costi di produzione che determinano a loro volta alti costi di vendita al pubblico. La caratteristica dei capi realizzati da Laurini, infatti, è interamente legata ad una costante ricerca su filati, tessuti e forme. Tale sperimentazione, iniziata nel 2002, è divenuta la base di tutta la sua filosofia e si esplicita nel nome del marchio: “etichetta in costruzione”. Visitando l’atelier ci si rende subito conto che siamo in presenza di un vero e proprio artista che sperimenta materia tessile applicandola all’abbigliamento, facendo si che quest’ultimo mantenga, nonostante le necessarie caratteristiche d’utilità, una parte di autonomia espressiva. Da ciò l’esclusività, la ridotta produzione – attestata sui 40/50 pezzi per capo – e, conseguentemente, l’innalzamento dei costi. Una difficoltà che Laurini ha saputo trasformare in forza attraverso un’intelligente politica aziendale e soprattutto l’intraprendenza nel frequentare ambienti internazionali come Parigi, dove affittò un locale nel 2003 dopo aver constatato l’interesse suscitato dai propri prodotti, e persone capaci di apprezzare questi particolari indumenti. Ne è conferma il successo riscontrato dal prodotto nelle boutique con le quali collabora. Le sue creazioni presentano elementi riconducibili ai consunti sacchi di Burri, ai tagli di Fontana, alle dinamiche visive dell’Optical art, al pensiero raffinato dell’Arte povera; indossare un capo LUC significa indossare un’opera d’arte che richiede cura e rispetto se si desidera preservarne le caratteristiche nel tempo.

Luca quando parli di ricerca, studio del tessuto, progetto, cosa intendi?

Ricerca è per me un sentiero nuovo da percorrere, una strada non battuta.

Potresti parlami di un progetto a te caro?

Uno dei progetti più interessanti di questo ultimo periodo è Signals, un’intera linea basata sulle possibilità estetiche e tecniche del codice Morse. Sfruttando certi processi di tessitura o intervenendo con tagli laser, ho applicato ai tessuti questo linguaggio costituito da punti e linee, componendo veri e propri testi. Per rendere più esplicativo il tutto ho realizzato un manifesto a corredo, come un insieme di cartoline che richiamano il capo d’appartenenza riportando le quattro categorie analizzate: acronimo, poesia, aforisma e parola. Sulla poesia, per meglio capirci, c’è un brano di Alda Merini “la veste è il fogliame dell’uomo che copre la nudità del suo respiro”; se giriamo il foglio ne vediamo la traduzione in Morse. Quella serie di punti e linee, tessuti con una tecnica che rimanda al bottello in stampa, compongono la frase che si sviluppa nel capo. Ogni elemento della collezione, in ogni caso, doveva esprimere un messaggio.

Quanto tempo ti ha impiegato il progetto?

 Per arrivare dall’idea al prodotto finito, quindi ad una linea di circa quindici capi, ci sono voluti due anni.

Quanti progetti hai portato a compimento come nel caso di Signals e quale è stato il primo?

 Fino ad oggi cinque. Il primo è stato Metamorfosi strutturali, dedicato alla metamorfosi della materia. Da un lato ho lavorato sul recupero di materiali vintage che nel corso del tempo hanno subito naturalmente delle trasformazioni; ad esempio, fra i materiali scelti sono presenti delle tende militari da campo degli anni ’60, caratterizzate da muffe e lacerazioni. Dall’altro, ho imposto una metamorfosi su materiali nuovi attraverso trattamenti che ne alterano notevolmente la struttura. Il progetto ha quindi presentato sia metamorfosi naturali che indotte chimicamente.

 Come dimostrano questi brevi esempi le tue creazioni sono difficili anche solo da spiegare. Chi sono normalmente i tuoi acquirenti?

Sebbene i nostri capi non siano esclusivamente da uomo, in generale la nostra clientela è maschile e abbraccia una fascia d’età molto ampia. So ad esempio di un gallerista settantacinquenne australiano che compera regolarmente i nostri prodotti.

Ci sono anche personaggi dello spettacolo?

Sì, tra i nostri clienti ci sono anche dei volti molto noti; ad esempio, nel film The Avengers Robert Downey Jr. indossa una nostra maglia e sappiamo che Sting ha acquistato dei nostri capi a Firenze. Grazie alle boutique di Los Angeles e New York nostre clienti, alcuni nostri pezzi sono stati acquistati da attori di Hollywood.

So che nel 2012 hai realizzato un piccolo progetto per la Fondazione ANT, che offre assistenza ai malati di tumore. Ci puoi dire brevemente qualcosa?

Certamente. Ho creato un’istallazione nel mio show-room per la fondazione ANT. Poiché la materia su cui lavoro quotidianamente è il filo, ancor prima del tessuto, ho deciso di usarlo in maniera inusuale. Congiungendo con un filo bianco i vertici delle lettere di una frase, realizzati tramite puntine bianche posizionate a muro, ho vergato una frase molto cara all’ANT: “il nostro molto sarebbe nulla senza il poco di tanti”. Queste parole, delineate da un filo bianco su fondo bianco, risultano leggibili solo se illuminate dai raggi ultravioletti. Pertanto, tutti gli ospiti dell’evento hanno scoperto il significato delle puntine a muro solo nel momento in cui sono state accese le luci UV. Il mio intento iniziale era quello di far percepire qualcosa che somigliasse al codice per ipovedenti. Al termine del lavoro, mia nipote mi ha fatto riflettere sul fatto che la frase assomigliasse a una costellazione. Da lì è nata l’idea di costruire un microcosmo fatto di tronchi d’albero, pietre, muschio e un piccolo specchio d’acqua; in tale universo ho posizionato rane, farfalle e una barchetta, create attraverso l’arte degli origami e anch’esse sensibili ai raggi UV. Il candore della carta, infatti, risplendeva non appena venissero accese le lampade UV. In quel piccolo mondo fatto di forme viventi e oggetti di varia natura ci siamo ritrovati al cospetto di un’insolita costellazione, in grado di esprimere un messaggio di profonda solidarietà.

Concludo con una domanda più personale e cioè ti senti più stilista o artista?

Probabilmente mi vedo piuttosto come un architetto mancato in quanto il mio lavoro è caratterizzato da una profonda ricerca strutturale. I miei progetti non rientrano nella logica delle tendenze del mercato ma sono caratterizzati da un’evoluzione che segue una propria autonomia.